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rep.repubblica.it I “bolliti della P38”. Quei latitanti ridotti a fantasmi tra bistrot e librerie



AVEVANO già fatto la fine anonima del “marziano a Roma”, ma a Parigi. Erano “i bolliti della P38”, detriti depositati dal fiume di una storia italiana che forse è persino più vecchia di loro. Eppure avevano aspettato per più di tre decenni la fase suprema del capitalismo nei bistrot di Saint Michel, al vecchio Passepartout e al Baraonda. E c’è stato un tempo non lontano in cui tastavano il polso alla società digitale nelle piccole librerie del Quartiere latino, dove organizzavano incontri con le proprie vittime, scrivevano e dibattevano dell’Impero di Toni Negri e del Nomadismo, dell’anarco democrazia di Attali, e sulla nuova apocalisse climatica del capitale si misuravano con i naufraghi del Pianeta nei circoli di La Corneuve, con i barbuti di Clichy-sous-bois, con gli “spioni di Allah” nella banlieue ribollente.

Allora erano associati in un’organizzazione che chiamavano Assemblea Generale, ma litigavano e si dividevano, nel movimento Bella Ciao, fra “entristi” ed “uscisti”, tra chi avrebbe voluto rientrare e chi avrebbe voluto uscire da una lotta armata che però non c’era più. E parlavano con quell’argot tutto loro, da braccati, da marginali e da ospiti, un parlare italo-francese che era come l’italo americano dei Sopranos: dans la mesure où; l’appartenenza di classe era una faire-part de naissance, la giustizia italiana sapeva solo se noyer dans un crachat, e ancora «il mio percorso» significava la fedina penale; «la messa al bando» era «passare alla Chambre», cioè rischiare l’estradizione e dunque ricorrere alla clandestinità, come fece, a suo tempo, Cesare Battisti e come ieri hanno fatto Raffaele Ventura e Luigi Bergamin, che erano stati i compagni a lui più vicini.

E però nella città-clinica dove è ricoverato il mondo, i sette arrestati di ieri, a cominciare da Pietrostefani che non somiglia più a Pietrostalin, tutti anziani e malati, qualcuno con il fegato trapiantato e qualcun altro come la Petrella malata psichiatrica, insomma tutti pieni di acciacchi e di nipoti, avevano perso l’identità schizofrenica da italiani “anni Settanta”, da brigatisti per sempre, quello stile sfigato d’epoca che avrebbe potuto ispirare i manifesti paradossali di Oliviero Toscani, come il catalogo degli abiti dei condannati a morte o il “vestivamo alla Corleone” dei picciotti di Totò Riina: jeans, maglioni, Clark, eskimo e sigaretta, alla moda del “C’eravamo tanto armati”.

Un tempo Parigi estingueva le pene. Accanto al metro Alésia, non lontano dalla Piccola Cintura, in una zona notturna di non-diritto l’organizzazione degli esiliati trovava stanzette ai fuggitivi. Era un club di latitanti, come spiegavano loro stessi nelle conferenze stampa, che aveva fatto di Parigi la striscia di Gaza, il campo-profughi dove c’era chi si occupava della prima accoglienza, chi offriva da mangiare, chi trovava lavoretti di fortuna e ovviamente chi organizzava conferenze all’università che solo noi italiani smascheravamo come grottesche.

A quel tempo erano circa duecento, un piccolo grande mondo prescritto, con i suoi procedimenti e le sue regole, le sue abitudini e una gerarchia nelle professioni, e ci volle davvero tutta l’arte d’arrangiarsi italiana per riuscire per decenni a vivere di espedienti a Parigi, una città che non è generosa, senza mai diventare clochard.

Ricordo bene che Oreste Scalzone, che mai si è sporcato con delitti di sangue, era il loro portavoce: aveva una bella famiglia, una moglie che lo proteggeva dall’ipocondria («Che è la politica andata a male», diceva), una figlia che già gli aveva regalato un nipotino. E ogni giorno inventava occupazioni per sé e per gli altri, aveva la battuta facile quando non si infilava in verbosissime e professorali spiegazioni politiche, anch’esse da collettivo metropolitano d’antan, che gli servivano per far quadrare il mondo sconclusionato dei suoi rifugiati, che era fatto di mille cose incompatibili tra di loro e incontenibili, con i giudici nella parte dei persecutori e l’Italia nel ruolo del “Paese dove trionfa l’accanimento punitivo”.

C’è ancora il collegio degli avvocati che aveva messo in piedi lui. E meno male che sono rimasti in pochi gli intellettuali francesi esperti in sottoscrizione di appelli. Sono chiusi i ristoranti di riferimento e ricordo bene quando Scalzone mi disse con un sospiro: «Sono rimasti solo un decina di ricercati per omicidio, ma sono lontani da Parigi, sparsi per la Francia, dispersi, fuori dal campo profughi. Qui ci restano appena una quarantina di rifugiati minori». Ma non era vero.

Da allora sino all’arresto di ieri, Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella e Sergio Tornaghi erano ridotti a ombre che Parigi non “ospitava” più perché non esistevano più come comunità distinta e nobilitata dalla città-porto degli esiliati, dei fuoriusciti e dei latitanti. «Dobbiamo diventare la capitale dei dissidenti di tutto il mondo», diceva ancora nel 2014 Bertrand Delanoë, l’ultimo grande sindaco di Parigi, l’omosessuale socialista che il 17 ottobre del 2002 era stato accoltellato al ventre da un estremista omofobo. Quel colpo di coltello, che lo stava uccidendo, alla fine lo aveva reso più simpatico: «Il gesto disperato di un giovane criminale contro di me è la prova che gli omosessuali in Francia ce l’hanno fatta», disse con grande lucidità a noi giornalisti stranieri. Ma quando gli domandammo perché proteggeva i terroristi italiani si appellò alla grande tradizione di tolleranza e di libertà, e non ci fu modo di convincerlo che, come il suo accoltellatore, anche i killer italiani degli anni settanta erano criminali assassini e non romantici sognatori, che non c’era nessuna grandezza nascosta in loro e non era vero che il mostro stava altrove, nel sottofondo dello Stato italiano repressore.

La verità è che la colpevole simpatia di quella Parigi per gli ex terroristi italiani divenne a poco a poco un vezzo grazioso, come avrebbe dimostrato qualche anno dopo Carla Bruni che i francesi consideravano “la coscienza di sinistra” di Sarkozy, e che l’allora presidente usava, e anche bene, in politica estera. Avrebbero dovuto preoccuparsene soprattutto loro. La benevolenza imbronciata della regina dello charme borghese verso gli ex spietati killer della rivoluzione definitivamente consacrava la loro trasformazione: da orsi feroci che volevano distruggere il mondo a orsetti di peluche nei salotti della seduzione.

Ecco, prima dell’appoggio istituzionale dell’Eliseo che liberò Cesare Battisti, tutti i nostri latitanti a Parigi potevano contare sulla distrazione generale. Erano un problema di diritto, di giudici e di avvocati. Il gioco d’azzardo dell’Eliseo di Sarkozy trasformò tutti quegli uomini liberi in un oltraggio: ai parenti, all’Italia, a una comunità che è fatta di affetti familiari, materni, filiali, fraterni, coniugali. Insomma i figli, i nipoti, i fratelli delle vittime non sono una congrega politica ma un’umanità straziata. Mai godiamo di uomini in galera. Ma ancor meno godiamo della libertà di un’intera comunità di omicidi, assassini protetti che non si sono mai pentiti e non hanno nemmeno la dignità dei duri. Ci hanno restituito delle ombre e la loro prima pena è la pena che ci fanno.


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