American Gods

American Gods

Neil Gaiman

18
Cercarono di fermare i soldati, ma i soldati fecero fuoco uccidendoli entrambi. Perciò la canzone sbaglia, quando parla della prigione, è una licenza poetica. La realtà non corrisponde sempre alla poesia. La poesia non corrisponde sempre alla verità. Spesso è questione di metrica.
Commento di un cantante a
The ballad of Sam Bass,
in A
Treasury of American Folklore

Niente di tutto quello che è stato raccontato fin qui potrebbe accadere davvero. Prendetela come una metafora, se la cosa vi fa sentire meglio. Le religioni sono per definizione delle metafore, dopotutto: Dio è un sogno, una speranza, una donna, un ironista, un padre, una città, una casa più grande, un orologiaio che ha perso il suo prezioso cronometro nel deserto, qualcuno che vi ama, o addirittura, contro ogni evidenza, un essere celeste il cui unico obiettivo è fare in modo che la vostra squadra di calcio o il vostro esercito vincano, oppure che i vostri problemi professionali o matrimoniali si risolvano e che voi possiate prosperare trionfando su ogni difficoltà.

Le religioni sono punti di osservazione che condizionano le vostre azioni, posizioni di vantaggio da cui osservare il mondo.
Quindi non sta accadendo niente di tutto quello che è stato raccontato fin qui. Cose simili non possono succedere. Non c’è una sola parola di verità. In ogni caso, quel che accadde dopo, accadde nel seguente modo:

Ai piedi della Lookout Mountain, sotto alberi che fornivano una scarsa protezione contro la pioggia, uomini e donne si erano riuniti intorno a un piccolo fuoco all’aperto e stavano litigando.
La dea Kalì con la sua pelle nera come l’inchiostro e i denti bianchi e aguzzi disse: «È arrivato il momento».
Anansi, con i guanti giallo limone e i capelli argentati, scosse la testa. «Possiamo aspettare. E siccome possiamo, dobbiamo.»
Dalla folla si alzò un mormorio di disapprovazione.

«No, ascoltate, ha ragione» disse un vecchio con i capelli color grigio ferro: Chernobog. Teneva una mazza appoggiata alla spalla. «Hanno il vantaggio di dominarci dall’alto, e anche il tempo ci è contro. Cominciare adesso è una pazzia.»
Una creatura che assomigliava in parte a un lupo e soprattutto a un essere umano grugnì e sputò per terra. «Quale momento più giusto per attaccare,
dedushka?

Dobbiamo aspettare che il tempo migliori, quando è evidente che attaccheremo? Io dico: andiamo adesso. Dico: affrettiamoci.»

«Tra noi e loro ci sono le nuvole» osservò Isten degli ungheresi. Aveva un bel paio di baffi neri, portava un cappello nero dalla tesa larga tutto impolverato, e ostentava il sorriso di un uomo che si guadagna da vivere vendendo rivestimenti di alluminio per tetti e grondaie ai pensionati, e che lascia sempre la città subito dopo aver incassato gli assegni senza aver finito il lavoro.

Un uomo molto elegante che fino a quel momento non aveva detto niente congiunse le mani, avanzò verso il fuoco ed espresse la sua opinione in modo succinto e chiaro, suscitando cenni di assenso e borbottii di intesa.

Dal gruppo delle donne guerriere, le Morrigan, si alzò una voce. Erano così vicine, nell’ombra, da sembrare un’unica composizione di arti tatuati di blu e ali di corvo. La voce disse: «Non importa se il momento è giusto o sbagliato. È il momento. Ci ammazzano. Meglio morire tutti insieme attaccando come dèi che fuggendo alla rinfusa come topi».
Seguì un altro mormorio, questa volta erano d’accordo proprio tutti. La donna guerriera aveva espresso l’opinione generale: il momento era arrivato.

«La prima testa è mia» disse un cinese molto alto con una collana di minuscoli crani al collo. Cominciò ad arrampicarsi con lentezza e determinazione portando sulla spalla un bastone che terminava con una lama ricurva come una luna d’argento.

Anche il Nulla non dura per sempre.
Forse, lì nel Nessundove, era stato per dieci minuti, o forse per diecimila anni. Non faceva differenza: il tempo era un concetto del quale non aveva più bisogno.

Non ricordava il suo vero nome. In quel luogo che non era un luogo si sentiva svuotato e ripulito.
Senza forma, vuoto.
Non era niente.
E in quel niente una voce lo chiamò: «Hohoka, cugino. Dobbiamo parlare».
Qualcosa che un tempo era stato un uomo di nome Shadow disse: «Sei Whiskey Jack?».

«Già» rispose l’altro dall’oscurità. «È difficile rintracciarti, da morto. Non sei andato in nessuno dei posti che avevo pensato. Ti ho cercato dappertutto prima che mi venisse l’idea di guardare qui. Dimmi, l’hai poi trovata la tua tribù?»
Shadow ripensò all’uomo e alla ragazza che ballavano sotto la sfera di cristallo. «Credo di aver trovato la mia famiglia. La tribù no, non mi pare.»
«Scusa se ti disturbo.»
«Lasciami in pace. Ho avuto quello che volevo. Sono spacciato.»

«Ti stanno venendo a cercare» disse Whiskey Jack. «Vogliono farti risuscitare.»
«Ma sono spacciato» insisté Shadow. «È tutto finito, per sempre.»
«Non bisogna mai dire niente del genere» disse Whiskey Jack. «Mai. Andiamo da me. Ti andrebbe una birra?»
A quel punto in effetti gli sarebbe piaciuta. «Certo.»
«Prendine una anche per me. C’è una ghiacciaia, fuori dalla porta.» Erano nella baracca di Whiskey Jack.

Shadow aprì la porta con mani che fino a pochi istanti prima non possedeva e vide una ghiacciaia di plastica piena di pezzi di ghiaccio del fiume con una dozzina di lattine di Budweiser. Ne prese un paio e sedette sulla soglia a guardare la valle.
Si trovavano in cima a una montagna, vicino a una cascata gonfia di neve sciolta che faceva un salto di venti o trenta metri sotto di loro. Il sole si rifletteva sulla brina che copriva gli alberi affacciati sulla pozza in fondo alla cascata.

«Dove siamo?»
«Dov’eri l’ultima volta che sei venuto da me» rispose Whiskey Jack. «A casa mia. Vuoi tenerti la mia birra in mano fino a quando non sarà calda?»
Shadow si alzò e gli passò la lattina. «L’altra volta non c’era nessuna cascata davanti a casa tua.»
Whiskey Jack non rispose. Aprì la lattina e in un unico sorso ingollò metà del contenuto. Poi disse: «Ti ricordi mio nipote Harry Bluejay? Il poeta? Quello che ha scambiato la sua Buick per la vostra Winnebago, te lo ricordi?».

«Certo. Non sapevo che fosse un poeta.»
Whiskey Jack alzò il mento con fierezza. «Il miglior poeta d’America.»
Finì la birra, ruttò e si prese un’altra lattina, mentre Shadow stava ancora aprendo la prima. Nel sole del mattino sedettero uno accanto all’altro su un sasso vicino a un gruppo di felci verde pallido, osservando la cascata e bevendo la birra. Per terra, nei punti dove le ombre non si accorciano mai, c’era ancora un po’ di neve.
Il terreno era umido e fangoso.

«Harry era diabetico» continuò Whiskey Jack. «Capita. Capita troppo spesso. Voi uomini bianchi venite in America, ci prendete la canna da zucchero, le patate, il granturco, poi ci rivendete le patatine fritte e il popcorn caramellato e noi ci ammaliamo.» Sorseggiò la birra riflettendo. «Le sue poesie avevano vinto anche un paio di premi. Nel Minnesota c’era qualcuno che voleva pubblicargli un libro. Stava andando a parlare proprio con loro su una macchina sportiva. Aveva barattato la vostra ’Bago con una Miata gialla. I dottori hanno detto che dev’essere entrato in coma mentre era al volante, è uscito di strada ed è andato a sbattere contro uno dei vostri cartelli stradali. Troppo pigri per guardare dove andate, per capire le indicazioni delle montagne e delle nuvole, avete bisogno di mettere cartelli dappertutto. E così Harry Bluejay se n’è andato a vivere per sempre con fratello Lupo. Perciò, mi sono detto, non c’era più niente che mi tenesse là. E sono venuto al Nord. Qui si pesca bene.»

«Mi dispiace per tuo nipote.»
«Anche a me. Così adesso vivo qui al Nord. Lontano dalle malattie dall’uomo bianco. Dalle strade dell’uomo bianco. Dai cartelli dell’uomo bianco. Dalle Miata gialle dell’uomo bianco. Dal popcorn caramellato dell’uomo bianco.»
«Anche dalla birra dell’uomo bianco?»
Whiskey Jack guardò la lattina. «Quando finalmente voi uomini bianchi ve ne andrete via lasciateci pure le fabbriche di birra Budweiser» disse.

«Dove siamo?» domandò Shadow. «Sono ancora sull’albero? Sono morto? Sono qua? Pensavo che fosse tutto finito. Che cosa è reale?»
«Sì» rispose Whiskey Jack.
«"Sì"? Che razza di risposta sarebbe "sì"?»
«Una buona risposta. Una risposta sincera.»
Shadow disse: «Sei un dio anche tu?».

Whiskey Jack scosse la testa. «Sono una leggenda. Facciamo quello che fanno gli dèi, con qualche cazzata in più, e nessuno ci venera. Raccontano un po’ di storie sul nostro conto, qualcuna ci mette in cattiva luce e qualche altra ci fa fare bella figura.»
«Capisco» disse Shadow, e più o meno capiva.

«Ascolta» disse Whiskey Jack, «questo non è un posto buono per gli dèi. Il mio popolo se n’è reso conto subito. Ci sono spiriti creatori che hanno trovato la terra, oppure l’hanno fatta o l’hanno cagata, ma pensaci un po’… chi è che vorrebbe adorare Coyote? Ha fatto l’amore con la Donna Porcospino e si è ritrovato con il cazzo come un puntaspilli. Se si metteva a discutere con i sassi lo fregavano loro.

«Quindi, sì, il mio popolo ha capito che dietro dev’esserci qualche cosa, un creatore, un grande spirito di qualche tipo, e quindi gli diciamo grazie, perché dire grazie va sempre bene. Però chiese non ne abbiamo mai costruite. Non ne abbiamo bisogno. La terra era la nostra chiesa. La terra era la religione. La terra era più antica e più saggia degli uomini che la calpestavano. Ci dava salmone e granturco e bufali e colombe migratrici. Ci dava il riso d’acqua e le felci. Ci dava i meloni, le zucche e i tacchini. E noi eravamo i figli della terra, proprio come il porcospino, la puzzola e la ghiandaia azzurra.»

Finì la seconda birra e indicò con un gesto in fondo alla cascata. «Se segui quel fiume, dopo un po’ arriverai ai laghi dove cresce il riso d’acqua. Quando è il periodo giusto ci puoi andare in canoa insieme a un amico, te lo raccogli, lo cucini, lo conservi, e resiste per tantissimo tempo. In ogni posto crescono cibi diversi. Molto più a sud ci sono gli aranci, i limoni e quelle cose molli e verdi che sembrano pere…»
«Avocado.»

«Avocado, giusto. Proprio loro. Quassù non crescono. Questa è la terra del riso d’acqua. Delle alci. Quello che sto cercando di dirti è che l’America è così. Non è un terreno fertile per gli dèi. Non crescono bene e basta. Sono come gli avocado che cercano di crescere nella terra del riso d’acqua.»
«Magari non cresceranno bene» rispose Shadow, ricordando qualcosa, «però si fanno la guerra.»

Quella fu la prima e unica volta che vide ridere Whiskey Jack. Sembrava che abbaiasse, in realtà, era una risata poco divertita. «Ehi, Shadow: se tutti i tuoi amici si buttano giù da una rupe, ti butti anche tu?»
«Può darsi.» Shadow stava bene. Non pensava che fosse soltanto merito della birra. Non riusciva a ricordare quando si era sentito altrettanto vivo, e integro.
«Non sarà una guerra.»
«Allora che cos’è?»

Whiskey Jack stritolò la lattina di birra tra le mani fino ad appiattirla completamente. «Guarda» disse, indicando la cascata. Il sole era alto e ne catturava gli spruzzi creando un nembo iridato che rimaneva sospeso nell’aria. Shadow pensò che non aveva mai visto niente di più bello.
«Sarà un bagno di sangue.»

A quel punto Shadow capì. Lo capì in tutta la sua cruda semplicità. Scosse la testa, poi cominciò a ridacchiare, scosse di nuovo la testa e scoppiò a ridere sonoramente senza riuscire a smettere.
«Stai bene?»
«Benissimo» rispose. «Solo che finalmente ho visto gli indiani nascosti. Non tutti, però qualcuno sì.»
«Allora probabilmente devono essere ho chunk, non sono mai stati capaci di nascondersi.» Guardò in alto verso il sole. «È tempo di tornare» disse. Si alzò.

«È una truffa per cui servono due uomini. Soci» disse Shadow. «Non in guerra. Giusto?»
Whiskey Jack gli batté una pacca sul braccio. «Non sei così stupido.»
Tornati alla baracca, Whiskey Jack aprì la porta. Shadow esitò. «Mi piacerebbe poter restare qui con te» disse. «Mi sembra un buon posto.»

«Ci sono tanti posti buoni» rispose l’altro. «Il senso è questo. Sta’ a sentire, gli dèi muoiono quando vengono dimenticati. Anche la gente. Però la terra rimane: i posti buoni e quelli cattivi. La terra non va da nessuna parte. Neanch’io.»
Shadow chiuse la porta. Qualcosa lo stava tirando. Era di nuovo solo nell’oscurità, ma l’oscurità diventava a poco a poco luminosa, sempre più luminosa, fino a quando non fu splendente e abbagliante come il sole.
Allora cominciò il dolore.

Easter camminava sul prato e al suo passaggio spuntavano i fiori.
Passò accanto a un luogo dove tanto tempo prima c’era stata una fattoria. Se ne vedevano ancora le mura spuntare tra giunchi ed erbacce come denti marci. Cadeva una pioggia leggera. Le nubi erano basse e scure e faceva freddo.

Poco dietro il punto dove sorgeva la fattoria c’era un albero, un enorme albero grigio argento nella sua spoglia veste invernale e, di fronte all’albero, nell’erba, brandelli di stoffa incolore. La donna si fermò, si chinò, e raccolse qualcosa di marrone e bianco: un frammento d’osso molto masticato che doveva essere appartenuto a un teschio umano. Lo ributtò nell’erba.

Poi guardò l’uomo appeso e sorrise ironica. «Nudi non sono poi così interessanti» disse. «Metà del divertimento consiste nello spogliarli. Come quando si aprono i regali e si sgusciano le uova.»
L’uomo con la testa di falco che camminava accanto a lei si guardò il pene e sembrò rendersi improvvisamente conto di essere nudo. Disse: «Io posso guardare il sole senza battere le palpebre».
«Ma che bravo» lo rassicurò Easter. «Dai, tiriamolo giù di lì.»

Le funi bagnate che tenevano Shadow legato all’albero erano ormai marce e cedettero al primo strattone. Il corpo scivolò verso le radici. I due lo afferrarono in caduta e lo trasportarono facilmente, benché fosse grande e grosso, e lo adagiarono sul prato grigio.
Il corpo era freddo, e non respirava. Sul fianco aveva una ferita con del sangue coagulato, come se fosse stato trafitto da una lancia.
«E adesso?»
«Adesso» rispose lei «lo riscaldiamo. Sai quello che devi fare.»
«Lo so. Non posso.»

«Se non eri disposto a dare una mano non avresti dovuto farmi venire fin qua.»
Easter allungò una mano candida e sfiorò i capelli corvini di Horus. Lui la guardò con grande concentrazione, poi cominciò a scintillare come la foschia provocata da un calore intenso.
Gli occhi di falco che la guardavano erano luminosi, color arancione, come se vi fosse stata ravvivata una fiamma estinta da tempo.

Il falco si alzò in volo salendo a spirale, volando intorno al prato tra le nuvole grige dove era nascosto il sole, e mentre saliva diventava una macchia, poi un puntino e poi più niente di visibile a occhio nudo, qualcosa che poteva soltanto essere immaginato. Le nubi cominciarono a sfaldarsi e a evaporare liberando una striscia di cielo azzurro attraverso la quale spuntò il sole. Il primo raggio che riuscì a penetrare le nubi e inondare il prato era bellissimo, ma la perfezione si dissolse, man mano che le nuvole scomparivano. Di lì a poco brillava sul prato un sole estivo di mezzogiorno che trasformava il vapore acqueo in umidità, e l’umidità in niente.

Inondò il corpo sdraiato sul prato con il radioso calore dei suoi raggi d’oro, lo accarezzò con sfumature rosa e di un caldo marrone.
La donna fece scorrere delicatamente le dita della mano destra sul petto del cadavere. Le sembrò di sentire un fremito, non proprio un battito, però… Lasciò la mano appoggiata sul cuore.

Piegò la testa, avvicinò la bocca alla bocca di Shadow e cominciò a respirare ritmicamente, poi il respiro diventò un bacio. Un bacio gentile che aveva il sapore delle piogge primaverili e dei fiori di campo.
La ferita nel fianco riprese a sanguinare, gocce di sangue liquido e scarlatto che rotolavano come rubini nella luce, e poi smise.
Lei baciò Shadow su una guancia e sulla fronte. «Alzati. È ora di alzarsi. È il momento decisivo. Non te lo vorrai perdere.»

Shadow batté le palpebre e poi aprì gli occhi: avevano il colore grigio della sera. La guardò.
Easter sorrise e ritrasse la mano.
«Mi hai riportato indietro» le disse. Lentamente, come se avesse dimenticato come si fa a parlare, e con un tono addolorato e stupito.
«Sì.»
«Ero spacciato. Già giudicato. Tutto finito. Mi hai riportato indietro. Come hai osato?»
«Mi dispiace.»
«Sì.»

Lui si alzò lentamente e trasalì, toccandosi il fianco con un’aria ancora più sconcertata: c’era qualche goccia di sangue fresco, ma nessuna ferita.
Shadow allungò una mano e per sostenerlo lei gli infilò un braccio sotto le ascelle. Lui guardò verso il prato come sforzandosi di ricordare i nomi delle cose che vedeva: i fiori nell’erba alta, le rovine della fattoria, i germogli, quasi una peluria sui rami dell’enorme albero argenteo.
«Ti ricordi?» chiese lei. «Ricordi quello che hai imparato?»

«Ho perduto il mio nome, e il cuore. Tu mi hai riportato indietro.»
«Mi dispiace» ripeté Easter. «Stanno per cominciare a combattere: i vecchi dèi e quelli nuovi.»
«Vuoi che combatta per voi? Hai perso il tuo tempo, allora.»
«Ti ho riportato indietro perché dovevo» rispose lei. «Adesso farai quello che devi. Tocca a te. Io ho fatto la mia parte.»
All’improvviso Easter divenne consapevole della nudità di Shadow, arrossì violentemente e distolse lo sguardo.

Protette dalla pioggia e dalle nuvole, le ombre si muovevano sul fianco della montagna, lungo i sentieri rocciosi.

Volpi bianche procedevano in compagnia di uomini dai capelli rossi, vestiti di verde. C’era un minotauro che avanzava accanto a uno pterodattilo con gli artigli di metallo. Un maiale, una scimmia e un essere demoniaco dai denti aguzzi salivano in compagnia di un uomo dalla pelle azzurra che teneva in mano un arco fiammeggiante, un orso con i fiori intrecciati nella pelliccia e un uomo con una corazza a maglia d’oro che aveva una spada fatta di occhi.

Il bellissimo Antinoo, amante di Adriano, saliva sulla montagna in testa a un manipolo di omosessuali vestiti di cuoio con i muscoli perfettamente scolpiti dagli steroidi.
Un ciclope dalla pelle grigia con un enorme smeraldo al posto dell’occhio avanzava a passo rigido precedendo alcuni uomini tozzi dalla carnagione scura, i volti impassibili e regolari come nelle incisioni azteche: uomini che conoscevano i segreti inghiottiti dalla giungla.

Un cecchino appostato sulla vetta prese la mira con calma e sparò sulla volpe bianca. Ci fu un’esplosione, una nuvoletta di cordite, l’odore della polvere da sparo si diffuse nell’aria umida. Il cadavere era quello di una giovane donna giapponese con la pancia sventrata, la faccia tutta coperta di sangue. Piano piano il cadavere svanì.
La gente continuava ad arrampicarsi sulla montagna a due zampe, a quattro zampe, senza zampe.

Il viaggio attraverso il territorio montagnoso del Tennessee era stato bello da mozzare il fiato quando non c’era il temporale e sfinente quando la pioggia scrosciava violenta. Town e Laura avevano chiacchierato per tutto il tragitto. Lui era incredibilmente felice di averla incontrata. Era come aver ritrovato un’amica, una vecchia amica molto amata e non più incontrata da anni. Avevano parlato di storia, di cinema, di musica, e si era scoperto che Laura era l’unica oltre a lui ad aver visto un film straniero degli anni Settanta (Town era sicuro che fosse spagnolo, mentre lei diceva polacco) intitolato

Il manoscritto trovato a Saragozza,
un film che Town cominciava a credere di aver sognato.
Quando Laura indicò il primo fienile con la scritta VISITATE ROCK CITY lui ridacchiò e ammise di essere diretto proprio lì. Lei disse: fantastico, aveva tanto desiderato visitare uno di quei posti, non ne aveva mai avuto il tempo e se n’era sempre rammaricata. Per questo adesso era in viaggio, per vivere un’avventura.

Lavorava in un’agenzia di viaggi, gli raccontò, era separata dal marito. Ammise di ritenere che non sarebbero più tornati assieme, e aggiunse che la colpa era sua.
«Non posso crederci.»
Lei sospirò. «È vero, Mack, non sono più la donna che aveva sposato.»

Be’, le disse lui, la gente cambia, e prima di rendersi conto che le stava ormai raccontando proprio tutto della sua vita, attaccò a parlare di Woody e Stone, di come insieme venivano chiamavati i tre moschettieri, e che gli altri due erano stati uccisi. Uno penserebbe che lavorando per il governo ci si dovrebbe abituare ai morti ammazzati, invece non ci si abitua mai.
E lei allungò una mano — talmente fredda che Town alzò il riscaldamento — e gli strinse forte la sua.


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