American Gods

American Gods

Neil Gaiman

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In questo paese tutto è su larga scala. I fiumi sono immensi, il clima estremo, le possibilità sconfinate, i tuoni e i fulmini terrificanti. I disordini fanno tremare le istituzioni del paese. Errori, cattiva condotta, perdite, disgrazie, rovina, tutto è su larga scala.
LORD CARLISLE a George Selwyn, 1778

Il luogo più importante del Sudest degli Stati Uniti d’America viene pubblicizzato su centinaia di vecchi fienili in tutta la Georgia e il Tennessee su fino al Kentucky. Mentre percorre una strada che attraversa serpeggiando la foresta, può capitare che un viaggiatore passi davanti a un fatiscente fienile rosso e veda dipinte sul tetto le parole
VISITATE ROCK CITY
L’OTTAVA MERAVIGLIA DEL MONDO
e sul tetto di un diroccato mungitoio poco distante, dipinto a lettere cubitali bianche

AMMIRATE I SETTE STATI A ROCK CITY
LA MERAVIGLIA DEL MONDO
Il viaggiatore potrebbe immaginare che Rock City sia proprio dietro l’angolo, quando invece si trova a una giornata di viaggio, sulla Lookout Mountain, a un tiro di schioppo dal confine, in Georgia, appena a sudovest di Chattanooga, nel Tennessee.

Lookout Mountain non è una grande montagna, somiglia piuttosto a una collina imponente. I chickamauga, un ramo dei cherokee, vivevano qui, quando arrivarono gli uomini bianchi; chiamavano la montagna Chattanoogee, che significa
la montagna che finisce a punta.

Negli anni Trenta del diciannovesimo secolo, l’Indian Relocation Act di Andrew Jackson li esiliò dalla loro terra — i choctaw e i chickamauga e i cherokee e i chickasaw — e le truppe statunitensi costrinsero tutti quelli che riuscirono a trovare a percorrere più di mille e cento chilometri fino ai cosiddetti nuovi Territori Indiani, che un giorno sarebbero diventati l’Oklahoma, lungo la cosiddetta pista del pianto: un caso di genocidio spontaneo. Migliaia di uomini, donne e bambini morirono sulla pista. Del resto se sei il vincitore fai quello che vuoi e nessuno può dirti niente.

Perché chi controllava la Lookout Mountain controllava la terra, o così voleva la leggenda. Era un luogo sacro, dopotutto, e sopraelevato. Durante la Guerra Civile, la guerra tra gli stati, vi si combatté una battaglia importante proprio il primo giorno: la Battaglia sopra le nuvole. L’esercito dell’Unione fece l’impossibile e senza aver nemmeno ricevuto l’ordine scalò il Missionary Ridge e lo conquistò. I nordisti presero la montagna e il Nord vinse la guerra.

Vi sono grotte e gallerie, in alcuni casi molto antiche, sotto la montagna. Adesso sono quasi tutte chiuse, anche se tempo fa un imprenditore della zona fece fare degli scavi per trovare la cascata sotterranea che chiamò Ruby Falls. La si può raggiungere con un ascensore. È una meta turistica, anche se il posto che attrae più gente qui è Rock City, proprio sulla vetta.

Rock City si sviluppa come un giardino ornamentale sul fianco di una montagna: per visitarla si imbocca un sentiero che passa attraverso, sopra e in mezzo alle rocce. Si può dare il mais ai daini chiusi in un recinto, attraversare una specie di ponte tibetano e, nei rari giorni di sole, quando l’aria è perfettamente limpida, ammirare con un binocolo, per la modica cifra di un quarto di dollaro, il promesso panorama dei sette stati. Da lì il sentiero — discesa in uno strano inferno — conduce milioni e milioni di visitatori ogni anno fino alle grotte, dove possono guardare le bambole illuminate da luci ultraviolette nei diorami con ambientazioni da favola. Se ne vanno poi molto sconcertati, incerti sul motivo del loro viaggio, su ciò che hanno visto, sul fatto di essersi divertiti oppure no.


Arrivarono a Lookout Mountain da ogni punto degli Stati Uniti. Non erano turisti. Arrivarono in automobile, in aeroplano, in autobus e in treno, a piedi. Alcuni di loro vennero in volo, volando basso e soltanto nelle ore più buie della notte. Altri percorsero segrete vie sotterranee. Molti fecero l’autostop, scroccando un passaggio a qualche motociclista nervoso o a un camionista. Se si incontravano lungo la strada, nelle stazioni di servizio o nei ristoranti, quelli che avevano mezzi propri offrivano un passaggio a chi procedeva a piedi. Raggiunsero la montagna che erano stanchi e coperti di polvere. Guardando in su verso il pendio alberato videro, oppure immaginarono di vedere, i sentieri, i giardini e la cascata di Rock City.

Cominciarono a presentarsi nelle prime ore del mattino; al crepuscolo giunse una seconda ondata. Continuarono ad arrivare per giorni. Un malconcio U-Haul scaricò alcune
vila
e
rusalka
sfinite dal viaggio, con il trucco sciolto, le calze smagliate, gli occhi pesanti.
In un fitto boschetto alle pendici della montagna un anziano
wampyr

offrì una Marlboro a una creatura scimmiesca coperta soltanto di un’arruffata peluria arancione, che accettò benevola. Fumarono la sigaretta insieme, in silenzio.

Una Toyota Previa si fermò sul ciglio della strada: ne scesero sette cinesi, tra uomini e donne. Ciò che colpiva soprattutto di loro era l’aspetto pulito: indossavano quel genere di abito scuro che in certi paesi è un po’ la divisa dei funzionari governativi di rango inferiore. Mentre dalla vettura venivano scaricate enormi sacche da golf che contenevano spade con le lame decorate e le else laccate, bastoni finemente incisi e specchi, uno di loro, che teneva un taccuino in mano, fece l’inventario. Le armi vennero distribuite, spuntate sul taccuino, e alla consegna ciascun cinese firmò una ricevuta.

Un ex attore comico piuttosto famoso, creduto morto negli anni Venti, scese dalla sua macchina arrugginita e cominciò a spogliarsi: aveva le zampe di capra, e una coda corta e caprina.
Arrivarono quattro messicani tutti sorridenti, con i capelli neri e unti: si passavano una bottiglia nascosta in un sacchetto di carta marrone che conteneva un miscuglio di cioccolata in polvere, liquore e sangue.
Un uomo di bassa statura con la barba scura e una bombetta sulla testa, i ricciuti
payess

alle tempie e un lacero scialle di preghiera, giunse a piedi attraverso i campi. Precedeva di qualche metro il suo compagno che era alto il doppio di lui e aveva il colore grigio della buona argilla polacca: la parola incisa sulla sua fronte significava
vita.
Continuarono ad arrivare. Si fermò anche un taxi da cui scesero parecchi
rakshasa,

i demoni del subcontinente indiano. Si misero subito a gironzolare fissando tutti in silenzio fino a quando non trovarono Mama-ji, che a occhi chiusi muoveva le labbra come in preghiera. Era l’unica con qualcosa di familiare, tuttavia, ricordando le antiche battaglie, esitarono ad avvicinarla. Lei accarezzò la collana di teschi intorno al collo e la sua pelle scura a poco a poco diventò nera, nera come il giaietto, lucida come l’ossidiana: aveva tirato le labbra mostrando i denti bianchi e molto aguzzi. Aprì tutti i suoi occhi e accolse i

rakshasa
come figli.
I temporali scoppiati negli ultimi giorni a nord e a est non avevano allentato la pressione e il senso di disagio che aleggiava nell’aria. I meteorologi locali annunciavano la presenza di perturbazioni capaci di generare tornado, e zone stabili di alta pressione. Di giorno faceva abbastanza caldo, ma le notti erano fredde.

Si raggrupparono spontaneamente in base alle nazionalità, a volte alla razza, al temperamento, perfino in base alla specie. Sembravano in apprensione, sembravano stanchi.
Qualcuno parlava. Ogni tanto si sentiva una risata sporadica, subito soffocata. Circolavano confezioni di birra da sei.
Vennero in quei prati anche alcuni uomini e donne del posto, con i corpi che si muovevano in modo strano: le loro voci, quando parlavano, erano quelle del
loa

che li possedeva: un uomo di colore alto parlava con la voce di Papa Legba che apre i cancelli, mentre Baron Samedi, il signore della morte
voudón,
aveva preso possesso del corpo di un’adolescente metallara di Chattanooga, probabilmente per via di quel cappello a cilindro di seta nera che portava spavaldamente in testa. La ragazza parlava con la voce profonda del Baron, fumava un sigaro di dimensioni enormi e impartiva ordini a tre
gedé,
i
loa
dei morti. I
gedé

abitavano i corpi di tre fratelli di mezza età armati di fucili, raccontavano storielle talmente sconce che erano i soli disposti a riderne, e lo facevano sguaiatamente.
Due donne chickamauga con i blue jeans unti d’olio e malconce giacche di pelle si aggiravano osservando la gente e i preparativi per la battaglia. A volte indicavano qualcuno o qualcosa e scuotevano la testa. Non intendevano prendere parte al conflitto imminente.

La luna spuntò a oriente, al suo quattordicesimo giorno. Era grande come metà del cielo, quasi rossa, proprio sopra le montagne. Mentre l’attraversava sembrò rimpicciolirsi e impallidire fino a rimanere sospesa in alto in alto come una lanterna.
Erano in tantissimi ad aspettare, al chiaro di luna, alle pendici della montagna.

Laura aveva sete.

A volte i vivi bruciavano nella sua mente in modo costante, come le fiamme delle candele, altre volte fiammeggiavano come torce. Ciò rendeva più facile evitarli, e quando serviva, più facile reperirli. Shadow bruciava in un modo così strano, con una luce tutta sua, su quell’albero. Una volta lo aveva rimproverato, mentre camminavano tenendosi per mano, per il fatto di non essere vivo. Aveva sperato di cogliere una scintilla di emozione, di vedere qualcosa.

Ricordava che camminandogli accanto si era augurata che capisse cosa stava cercando di dirgli.
Morendo su quell’albero Shadow era stato straordinariamente vivo.
Lo aveva osservato bene, mentre la vita lo abbandonava: era concentrato, reale. E le aveva chiesto di restare con lui, di passare la notte con lui. L’aveva perdonata… forse l’aveva perdonata. Non era importante. Shadow era cambiato, di questo poteva dirsi sicura.

Le aveva detto di andare alla fattoria, dove le avrebbero dato da bere. Era tutto spento e sembrava che dentro non ci fosse nessuno, però Shadow aveva detto che le donne si sarebbero prese cura di lei, quindi spinse la porta tra le proteste dei cardini arrugginiti. Qualcosa nel suo polmone sinistro si mosse, qualcosa che spingeva e si contorceva e le provocava la tosse.

Si ritrovò in uno stretto corridoio bloccato da un grande pianoforte polveroso. L’odore di umidità era intenso e stantio. Riuscì a passare infilandosi tra pianoforte e muro, aprì un’altra porta ed entrò in un soggiorno in rovina, zeppo di mobili rotti. Sulla mensola del camino bruciava una lampada a olio. C’era un fuoco di carbone acceso, benché dall’esterno lei non avesse visto il fumo né sentito l’odore. Il fuoco non riusciva a riscaldare la stanza gelata, ma Laura era pronta a riconoscere che non fosse colpa della stanza.

La morte le procurava una sofferenza che consisteva soprattutto di assenze: aveva sempre sete, un’arsura che le bruciava le cellule, nelle ossa un’assenza di calore assoluta. A volte si chiedeva se le fiamme scoppiettanti di una pira, o la soffice coltre scura della terra, non avrebbero potuto riscaldarla, se il freddo mare non sarebbe magari riuscito a dissetarla…

Si rese conto che la stanza non era disabitata. Sul vetusto sofà c’erano tre donne sedute come in uno strano allestimento in una galleria d’arte. Era un vecchio divano rivestito di velluto consunto, di un colore marrone che un tempo, centinaia di anni prima, doveva essere stato un vivace giallo canarino. Le donne seguirono con gli occhi l’ingresso di Laura senza dire niente.
Laura non si era aspettata di trovarle.

Qualche cosa si dimenò e le cadde nella cavità nasale. Cercò il fazzolettino di carta infilato nella manica e si soffiò il naso. Poi lo appallottolò e lo gettò nel fuoco con ciò che conteneva, restò a guardarlo mentre si accartocciava, anneriva e diventava una trina arancione. Guardò il verme che bruciava.
Poi si girò verso le donne sul divano che non avevano ancora mosso un muscolo né un capello. La fissavano e basta.
«Buon giorno. Questa è la vostra fattoria?» chiese.

La più alta delle tre annuì. Aveva le mani molto rosse e un’espressione impenetrabile.
«Shadow… l’uomo appeso all’albero… è mio marito… mi ha detto di dirvi di darmi un po’ d’acqua.» Qualcosa di enorme le si mosse nelle viscere, si contorse e poi tornò immobile.
La donna più piccola, che da seduta non arrivava a toccare con i piedi per terra, scese dal divano e uscì di corsa dalla stanza.

Laura sentì porte che si aprivano e chiudevano, e da fuori arrivarono degli scricchiolii, ognuno seguito da uno
splash.
Di lì a poco la piccola donna ritornò. Portava con sé una brocca di coccio piena d’acqua che posò con attenzione sul tavolo. Poi si ritirò verso il divano. Si issò a fatica sul sofà e sedette accanto alle sorelle come prima.

«Grazie.» Laura si avvicinò al tavolo, si guardò intorno in cerca di una tazza o di un bicchiere, e non vedendoli afferrò la brocca. Era più pesante del previsto e conteneva un’acqua perfettamente limpida.
L’avvicinò alle labbra e cominciò a bere.
Era fredda come ghiaccio. Le gelò la lingua, i denti e l’esofago. Comunque lei continuò a berla, incapace di smettere, sentendosi gelare lo stomaco, le viscere, il cuore, le vene.
Scorreva dentro di lei come ghiaccio liquido.

Quando si rese conto con sorpresa che la brocca era vuota, la riappoggiò sul tavolo.
Le donne la osservavano con distacco. Dal giorno della sua morte Laura aveva smesso di pensare per metafore: le cose erano o non erano. Ma adesso, guardando le tre sorelle sul divano, pensò a una giuria, a tre scienziati che esaminavano una cavia da laboratorio.

All’improvviso fu scossa da un brivido convulso. Tese una mano verso il tavolo per sostenersi, ma il tavolo scivolò via tutto storto e quasi le sfuggì. Quando riuscì ad appoggiare la mano cominciò a vomitare. Vomitò bile e formalina, centopiedi e vermi. E poi iniziò a defecare e urinare: il suo corpo si svuotava con violenza. Avrebbe urlato, se avesse potuto, ma a quel punto le tavole polverose del pavimento le vennero incontro talmente in fretta e con tanta durezza che, se avesse respirato, le avrebbero mozzato il respiro di colpo.

Il tempo la travolse e la percorse vorticando come un turbine di sabbia. Mille ricordi affollati insieme: si era persa in un grande magazzino la settimana prima di Natale, non trovava più suo padre; adesso era seduta nel bar, da Chi-Chi’s, a ordinare un daiquiri alla fragola mentre osservava l’uomo con cui gli amici le avevano combinato un appuntamento, l’uomo-bambino, grande e grosso e serio serio, chiedendosi come baciasse; poi era nella macchina che si ribaltava e continuava a roteare mentre Robbie le urlava qualcosa fino a quando il palo non aveva fermato la corsa della vettura, ma non quella dei corpi che conteneva…

L’acqua del tempo, che nasce dalla sorgente del destino, il fonte di Urdhr, non è l’acqua della vita. Non esattamente. Alimenta le radici dell’albero del mondo, però. E nessun’altra acqua le è pari.
Quando si risvegliò nella stanza vuota Laura tremava. Il suo respiro disegnava nuvolette nell’aria del mattino. Sul dorso della mano c’era un graffio con una macchietta umida che aveva il colore rosso del sangue fresco.

E sapeva già dove doveva andare. Aveva bevuto l’acqua del tempo, che sgorga dalla sorgente del destino: vedeva la montagna.
Leccò il sangue sul dorso della mano meravigliandosi della saliva e si mise in marcia.

Era un’umida giornata di marzo, insolitamente fredda per la stagione. I temporali dei giorni precedenti avevano sferzato anche gli stati meridionali, il che voleva dire che a Rock City, sulla Lookout Mountain, i veri turisti erano pochi. Le luminarie natalizie erano state smontate, e i visitatori dell’estate non avevano ancora cominciato ad arrivare.

Comunque c’era una folla, perfino un pullman turistico arrivato quella mattina con decine di uomini e donne dalle abbronzature perfette e dai sorrisi scintillanti, rassicuranti. Sembravano giornalisti televisivi e ci si poteva quasi immaginare che fossero fatti di puntolini fosforescenti: quando si muovevano lasciavano macchie indistinte. Una Humvee nera era parcheggiata proprio di fronte all’ingresso.

Quelli della televisione percorrevano con aria decisa tutta Rock City, fermandosi a parlare tra loro con voci garbate e ragionevoli vicino alla roccia in equilibrio.

Non erano gli unici esseri umani di quest’ondata di visitatori. Chi avesse percorso i sentieri di Rock City quel giorno avrebbe forse notato persone che sembravano divi del cinema, altri che sembravano alieni, e altri ancora che sembravano soprattutto un’idea di persone, niente affatto persone reali. Li avrebbe potuti vedere, certo, ma più probabilmente non li avrebbe notati per niente.

Erano arrivati a Rock City a bordo di lunghe limousine, piccole automobili sportive e fuoristrada enormi. Molti di loro indossavano gli occhiali da sole con quell’atteggiamento di chi li porta d’abitudine anche in interni e non li toglie volentieri. C’erano abbronzature e abiti eleganti, occhiali e sorrisi e cipigli. Erano persone di tutte le fogge e le dimensioni, tutte le età e gli stili.
In comune avevano quell’aria molto particolare che dice:
tu mi conosci,
o forse
mi dovresti conoscere.

Una familiarità immediata che è anche una lontananza, un aspetto, un atteggiamento, la sicurezza che il mondo è fatto per loro e che li accoglie sempre a braccia aperte.
Il ragazzo grasso si muoveva tra questa gente trascinando i piedi come chi fosse riuscito a diventare famoso, celebre perfino al di là delle proprie aspettative, malgrado l’evidente mancanza di attitudine per i rapporti sociali. Il suo cappotto nero svolazzava nel vento.

Una creatura in piedi accanto alla bancarella delle bibite nella Mother Goose Court tossì per attirare la sua attenzione. Era una creatura enorme, con lame affilate come bisturi che gli spuntavano dalla faccia e dalle dita. Aveva una faccia cancerosa. «Sarà una grande battaglia» gli disse con voce glutinosa.
«Macché battaglia» rispose il ragazzo grasso. «Qui stiamo per assistere a un cambiamento di paradigma. Una riorganizzazione. Modalità come
battaglia
sono decisamente troppo Lao Tzu.»

La creatura cancerosa batté le palpebre. «Aspetta» fu tutto quello che disse.
«Comunque» riprese il ragazzo grasso, «sto cercando il signor World. L’hai visto?»
La cosa si grattò con una delle sue lame, il labbro inferiore tumorale spinto in fuori in un’espressione concentrata. Poi annuì. «Da quella parte» disse.
Il ragazzo grasso si allontanò senza ringraziare nella direzione indicata. La creatura cancerosa aspettò a parlare fino a quando il ragazzo non fu lontano.
«
Sarà

una battaglia, invece» disse a una donna con la faccia macchiata di puntolini fosforescenti.
Lei annuì e si protese verso di lui. «E lei come si sente, in vista dello scontro?» chiese in tono comprensivo.
Lui batté le palpebre e cominciò a raccontarglielo.

La Ford Explorer di Town era dotata di un sistema satellitare, un piccolo schermo collegato al satellite che dava la posizione della macchina. Ciò nonostante una volta a sud di Blacksburg, lungo le strade di campagna, Town riuscì a perdersi: quello che percorreva non assomigliava mai all’intrico di linee sullo schermo. Lungo un sentiero si fermò, abbassò il finestrino e chiese a una bianca grassa trascinata da un cane lupo nella passeggiata mattutina le indicazioni per arrivare alla fattoria del frassino.

La donna annuì, indicò un punto vago e gli spiegò come arrivarci. Town non riuscì a capire niente ma la ringraziò molto lo stesso, rialzò il finestrino e si allontanò approssimativamente nella direzione che lei gli aveva segnalato.
Guidò per altri quaranta minuti lungo strade di campagna che sembravano non finire mai, e che non erano mai quella che stava cercando. Aveva cominciato a mordersi il labbro inferiore.

«Sono troppo vecchio per queste cazzate» disse a voce alta apprezzando il tono da divo cinematografico con cui aveva pronunciato la battuta.

Correva veloce. Aveva lavorato quasi tutta la vita in un settore del governo conosciuto soltanto con le iniziali, e se una decina di anni prima avesse lasciato davvero l’incarico governativo per andare a lavorare nel settore privato era un argomento di discussione ancora aperto: a volte pensava di sì, a volte di no. Comunque erano solo gli sprovveduti a credere che ci fosse una differenza.


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