American Gods

American Gods

Neil Gaiman

«Quello che dovresti fare, secondo me» pontificò quel seccatore di Cliff, «è di evadere durante la stagione della caccia, quando si vestono tutti d’arancione.»
Shadow rimase in silenzio.
«Ah, il gatto ti ha mangiato la lingua, a quanto pare» disse Diane. «Be’, ci hai fatto fare proprio un bell’inseguimento!»

Shadow distolse lo sguardo. L’agente Liz aveva cominciato a russare debolmente. La cameriera Carla sbottò: «Ehi, stronzo! Abbiamo interrotto la puntata per farti vedere qualcosa che te la farà fare addosso. Sei pronto?».

L’immagine vacillò e lo schermo diventò nero. La parola DIRETTA pulsava in bianco nell’angolo in basso a sinistra. Una sommessa voce femminile fuori quadro disse: «Non è ancora tardi per passare dalla parte dei vincitori. Comunque sei libero di restare dove sei. Essere americano significa poter scegliere. Questo è il miracolo americano. Libertà di fede significa essere liberi di credere nella cosa sbagliata, in fondo. Esattamente come la libertà di parola ti dà il diritto di tacere».

Adesso sullo schermo si vedeva l’immagine di una strada. La telecamera avanzò a sobbalzi come in un documentario girato con una cinepresa a spalla.
Un uomo con i capelli radi, l’abbronzatura e l’aria avvilita, riempì lo schermo. Era in piedi accanto a un muro e sorseggiava caffè da un bicchiere di plastica. Guardò in macchina e disse: «I terroristi si nascondono dietro definizioni astute come "combattenti per la libertà". Voi e io sappiamo che sono soltanto una banda di assassini».

Shadow riconobbe la voce. Una volta era stato dentro la testa di quell’uomo. Anche se dall’interno la voce del signor Town gli era sembrata diversa — più profonda, con più risonanza — era certo di non sbagliarsi.
Le telecamere si allontanarono mostrando Town davanti a un edificio di mattoni in una strada americana. Sopra la porta c’era un’insegna: una squadra a triangolo e un compasso intorno alla lettera G.
«Posizione» disse una voce fuori campo.

«Vediamo se dentro stanno girando» ribatté la voce femminile fuori quadro.

La parola DIRETTA continuava a lampeggiare nell’angolo sinistro dello schermo. Adesso si vedeva una piccola sala male illuminata. In fondo c’era un tavolo con due uomini seduti. Uno dei due dava la schiena alla telecamera che all’improvviso fece una strana zoomata. Per un momento i due andarono fuori fuoco, poi vennero ripresi in un’inquadratura perfetta. L’uomo che guardava in macchina si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro come un orso in gabbia. Era Wednesday. In un certo senso sembrava che si stesse divertendo. Quando vennero inquadrati entrò, con un

pop,
anche il sonoro.
L’uomo che dava la schiena alla telecamera stava dicendo «… stiamo offrendo è la possibilità di mettere fine a questa storia seduta stante, senza ulteriore spargimento di sangue, senza altre violenze, altre sofferenze, altre vite sprecate. Non merita forse qualche concessione?»

Wednesday si fermò e si voltò. Aveva le narici dilatate dall’ira. «Prima di tutto» ruggì «voi dovete capire che mi state chiedendo di parlare a nome degli altri, il che è palesemente irragionevole. E poi cosa diavolo ti fa pensare che io creda alla tua parola?»

L’uomo che dava le spalle alla telecamera mosse la testa. «Fai un torto a te stesso» disse. «È ovvio che non avete capi. Però i tuoi ascoltano te. Ti danno retta. E in quanto al fatto che io mantenga o meno la mia parola, queste trattative preliminari sono filmate e trasmesse in diretta.» Indicò la telecamera. «Qualcuno dei tuoi in questo momento ci sta guardando. Altri vedranno le videocassette. La telecamera non mente.»
«Tutti e tutto mentono» rispose Wednesday.

Shadow riconobbe la voce dell’uomo che dava le spalle alla macchina. Era il signor World, quello che aveva parlato con Town al cellulare mentre Shadow era nella testa di Town.
«Tu non credi» disse World «che manterremo la nostra parola?»
«Io credo che le vostre promesse siano fatte per non essere mantenute e i vostri giuramenti per essere rinnegati. Invece io ho una parola sola.»

«Un salvacondotto è un salvacondotto» disse World, «e abbiamo concordato una tregua. A proposito, devo dirti che il tuo giovane
protégé
è di nuovo nelle nostre mani.»
Wednesday sbuffò. «No» disse. «Non è vero.»
«Stavamo parlando di come affrontare l’imminente cambio di paradigma. Non dobbiamo essere necessariamente nemici. Non credi?»
Wednesday sembrava turbato. Disse: «Farò qualsiasi cosa in mio potere per…».

Shadow notò qualcosa di strano nell’immagine di Wednesday. Un puntino rosso nell’occhio sinistro, quello di vetro. Muovendosi il puntino lasciava un’aura fosforescente. Lui non sembrava rendersene conto.»
«È un grande paese» disse Wednesday con l’aria di chi si sforzi di mettere ordine nei propri pensieri. Mosse la testa e il puntolino rosso del laser scivolò sulla guancia. Poi ritornò sull’occhio. «C’è spazio per…»
Si sentì un
bang,

attutito dagli altoparlanti del televisore, e la metà sinistra della testa di Wednesday esplose. Il suo corpo ricadde all’indietro con un tonfo.
World si alzò, sempre dando la schiena alla macchina, e uscì dall’inquadratura.
«Rivediamo la scena al rallentatore» disse in tono rassicurante la voce dell’annunciatrice.

La parola DIRETTA venne sostituita da REPLAY. Molto lentamente il pallino rosso centrò l’occhio di vetro e ancora una volta metà della faccia di Wednesday si dissolse in una nuvola di sangue. Ci fu un fermo immagine.
«Sì, è ancora la Terra di Dio» disse l’annunciatore, lo speaker del telegiornale incaricato di pronunciare la battuta finale, «ma la domanda è: di quale dio stiamo parlando?»

Un’altra voce — quella di World, secondo Shadow, perché ne riconosceva l’intonazione vagamente familiare che aveva già notato la prima volta — disse: «Adesso torniamo alla nostra programmazione regolare».
In
Cheers
Coach tranquillizzò la figlia dicendole che era davvero bellissima, proprio come sua madre.

Squillò il telefono e l’agente Liz si svegliò di soprassalto. Alzò il ricevitore. Disse: «Okay. Okay. Sì. Okay». Riagganciò. Si alzò. «Devo metterti dentro» disse a Shadow. «Non usare il gabinetto. Ti stanno venendo a prendere dal dipartimeno dello sceriffo di Lafayette.»
Gli tolse le manette e i ceppi alle caviglie e lo rinchiuse nella cella. La puzza era ancora più forte con la porta chiusa.

Shadow sedette sulla branda di cemento, sfilò il dollaro d’argento della Libertà dal calzino e cominciò a farlo scivolare da un dito all’altro, da una mano all’altra, concentrato soltanto nel non farlo vedere a nessun eventuale curioso. Era un modo per passare il tempo, per stordirsi.
Sentiva la mancanza di Wednesday. Una nostalgia improvvisa e profonda. Gli mancavano la sua sicurezza, il suo modo di fare. Le sue convinzioni.

Aprì la mano, guardò la Signora Libertà, il profilo argenteo. Chiuse le dita intorno alla moneta e strinse forte. Si chiese se sarebbe diventato uno di quelli che finiscono condannati a morte per un reato che non hanno commesso. Sempre che fosse arrivato al processo. Da quanto sembrava, World e Town ci avrebbero impiegato un attimo a farlo fuori. Magari sarebbe finito vittima di un disgraziato incidente, mentre lo portavano a destinazione. Potevano sparargli perché aveva cercato di fuggire. Non era improbabile.

Nella stanza dall’altra parte del vetro c’era un certo movimento. Entrò l’agente Liz, premette un pulsante e una porta che Shadow non poteva vedere si aprì: un uomo di pelle scura con l’uniforme marrone dello sceriffo entrò e si avvicinò svelto al banco.
Shadow infilò il dollaro d’argento nel calzino.
Il nuovo arrivato diede alcuni documenti a Liz che li lesse in fretta e firmò. Arrivò Chad Mulligan, scambiò qualche parola con l’uomo, aprì la porta della cella e si rivolse a Shadow:

«Ecco. Sono venuti a prenderti. A quanto pare sei una questione di sicurezza nazionale. Lo sapevi?»
«Una bella storia per la prima pagina del "Lakeside News".»
Chad lo guardò inespressivo. «Cosa, che un balordo è stato arrestato per aver violato i termini di libertà vigilata? Non è granché, come storia.»
«È di questo che si tratta?»

«Così dicono a me» rispose Chad Mulligan. Shadow incrociò le mani davanti, questa volta, e Chad lo ammanettò. Poi gli mise i ceppi e fissò la catena tra questi e le manette.
Mi porteranno fuori,
pensò Shadow.
Forse potrei tentare la fuga, con i ceppi, le manette e tutto vestito di arancione sulla neve,
ma l’idea gli sembrò stupida e disperata già mentre la formulava.

Chad lo riportò nell’ufficio. Liz aveva spento il televisore. L’uomo di colore lo guardò dall’alto in basso. «È un omone grande e grosso» disse rivolto a Chad. Liz gli consegnò il sacchetto di carta che conteneva tutti gli effetti personali di Shadow e l’uomo firmò.
Chad guardò prima Shadow, poi l’altro e a voce bassa, ma non abbastanza perché Shadow non sentisse, disse: «Senta, questo modo di procedere non mi piace».

L’uomo annuì. «Deve fare reclamo presso le autorità competenti. Il nostro compito è portarlo in sede.»
Chad era irritato. Si voltò verso Shadow. «D’accordo» disse. «L’uscita sulla rampa è di là.»
«Come?»
«Di là. Si arriva direttamente alla macchina.»

Liz aprì con le chiavi. «Faccia in modo che quest’uniforme arancione torni da dove è venuta» disse. «La divisa dell’ultimo delinquente che abbiamo spedito a Lafayette non è più tornata. La contea le paga.» Spinsero Shadow oltre la soglia dove li aspettava una macchina con il motore acceso. Era una berlina nera, non l’automobile del dipartimento dello sceriffo. Un altro agente, brizzolato e con i baffi, stava fumando una sigaretta in piedi vicino alla macchina. Vedendoli arrivare la spense sotto una scarpa e aprì la portiera posteriore per far salire Shadow.

Salì a fatica, impacciato dalle manette e dai ceppi. Non c’era nessuna griglia divisoria nell’abitacolo.
I due uomini dello sceriffo salirono davanti. Quello di colore si era messo al volante. Aspettava che gli aprissero il portone.
«Dai, sbrigati» disse, tamburellando con le dita sul volante.
Chad Mulligan picchiò su un finestrino. L’agente bianco diede un’occhiata al collega e poi abbassò il vetro. «Non si fa così» disse Chad. «Volevo soltanto dire questo.»

«Abbiamo preso nota delle sue opinioni e le trasmetteremo a chi di dovere» rispose l’uomo al volante.
Le porte sul mondo esterno si spalancarono. Stava ancora nevicando, una macchia confusa alla luce dei fanali. L’agente alla guida accelerò e imboccò la strada che portava su Main Street.
«Hai saputo di Wednesday?» chiese. Adesso la sua voce suonava diversa, più vecchia, e familiare. «E morto.»
«Sì. Lo so» rispose Shadow. «L’ho visto alla Tv.»

«Quei bastardi» disse l’agente di razza bianca. Erano le sue prime parole, pronunciate con una voce roca e un forte accento, una voce familiare come quella dell’autista. «Te lo dico io cosa sono quelli, bastardi e figli di puttana.»
«Grazie di essere venuti a prendermi.»

«Figurati» disse l’uomo al volante. Alla luce dei fanali di un’automobile che veniva in senso contrario sembrava già più vecchio. E più piccolo. L’ultima volta che Shadow l’aveva visto indossava un paio di guanti giallo limone e una giacca a quadretti. «Eravamo a Milwaukee. Quando è arrivata la chiamata di Ibis ci siamo messi a correre come matti.»

«Credi che gli permetteremmo di sbatterti dentro e spedirti sulla sedia elettrica quando io sono ancora qui che aspetto di spaccarti la testa con la mia mazza?» chiese tetramente l’altro mentre rovistava in una tasca in cerca delle sigarette. Aveva un accento dell’Europa dell’Est.

«Il vero casino scoppierà tra meno di un’ora» disse il signor Nancy, sempre più simile a se stesso ormai, «quando arriveranno a prenderti davvero. Usciamo prima di imboccare la Highway 53: ti leviamo quei cosi e tu ti rivesti.» Chernobog mostrò la chiave per aprire le manette e i ceppi e sorrise.
«Mi piace con i baffi» gli disse Shadow. «Le stanno bene.»
Chernobog li accarezzò con un polpastrello giallo di nicotina. «Grazie.»

«È proprio morto, Wednesday? Non è uno scherzo, vero, o qualcosa del genere?»
Si rese conto solo in quel momento di essersi aggrappato a una speranza, una folle speranza. Ma l’espressione di Nancy gli disse tutto quello che c’era da sapere e anche l’ultima speranza svanì.

L’arrivo in America
14.000 a.C.

Quando ebbe la visione faceva freddo ed era buio, perché all’estremo Nord la luce era un grigiore fugace a metà di giornate che cominciavano, e finivano, tutte uguali: un interludio tra due oscurità.
Non si potevano definire, secondo i parametri di allora, una tribù numerosa: erano i nomadi delle Pianure Settentrionali. Avevano un dio, il cranio di un mammut, e la sua pelle, trasformata in un rozzo mantello.
Nunyunnini,

lo chiamavano. Quando non erano in viaggio lo tenevano su una piattaforma di legno, ad altezza d’uomo.
Lei era la sacerdotessa, guardiana dei segreti della divinità, e si chiamava Atsula, la volpe. Atsula precedeva i due uomini che portavano il dio su lunghi bastoni, avvolto in pelli d’orso perché occhi profani non lo vedessero in epoche considerate poco propizie.

Piantavano le loro tende ovunque, nella tundra. La più bella, fatta con pelli di caribù, era la tenda sacra e in quel momento accoglieva quattro membri della tribù: Atsula la sacerdotessa, Gugwei l’anziano, Yanu, il capo dei guerrieri, e Kalanu la guida. Li aveva convocati Atsula il giorno dopo aver avuto la visione.

Con la mano sinistra rattrappita, Atsula gettò dei licheni nel fuoco, e poi qualche foglia secca: il fumo che si alzò dalle fiamme faceva lacrimare gli occhi e aveva un odore acre e strano. Poi prese una tazza di legno dalla piattaforma e la porse a Gugwei. Dentro c’era un liquido giallo scuro.
Atsula aveva trovato i funghi
pungh —

ogni esemplare dotato di sette macchie, come solo una sacerdotessa sapeva trovare — li aveva raccolti nelle notti senza luna, e li aveva fatti essiccare su una striscia di cartilagine di daino.

La sera precedente, prima di dormire, ne aveva mangiati tre. I suoi sogni erano stati confusi, spaventosi, popolati di luci violente e improvvise, di montagne rocciose con lampi puntati verso il cielo come ghiaccioli. Durante la notte si era svegliata immersa in un bagno di sudore. Accovacciata sopra la tazza di legno l’aveva riempita di urina. Poi aveva messo la tazza fuori, nella neve, ed era tornata a dormire.

Al risveglio aveva tolto lo strato di ghiaccio dalla tazza dove era rimasto un liquido molto concentrato.
Era quel liquido che stava offrendo agli altri, prima a Gugwei, poi a Yanu e Kalanu. Ne presero tutti un gran sorso, poi toccò a lei. Versò ciò che restava per terra davanti al dio, una libagione a Nunyunnini.
Rimasero seduti nella tenda fumosa in attesa che la divinità parlasse. Fuori, nelle tenebre, il vento gemeva e ansimava.

Kalanu, la guida, era una donna che vestiva e si comportava come un maschio: si era perfino presa Dalani, una fanciulla di quattordici anni, in moglie. Kalanu chiuse le palpebre con forza, poi si alzò e si avvicinò al cranio del mammut. Si infilò sotto il mantello in modo da entrare con la testa nel teschio.

«C’è il male nella nostra terra» disse Nunyunnini con la voce di Kalanu. «Un male di tale portata che se resterete nella terra delle vostre madri e delle madri delle vostre madri perirete tutti.»
I tre che ascoltavano reagirono con un borbottio.
«Sono i mercanti di schiavi? Oppure i grandi lupi?» chiese Gugwei dai lunghi capelli bianchi, con il volto rugoso come la corteccia grigia di un biancospino.
«Non sono i mercanti di schiavi» rispose Nunyunnini, antico idolo. «Non sono i grandi lupi.»

«È una carestia? Sta arrivando un’epoca di carestia?» insisté Gugwei.
Nunyunnini taceva. Kalanu uscì dal cranio e dal mantello e aspettò con gli altri.
Toccò a Gugwei nascondersi sotto il manto e infilare la testa dentro il teschio.
«Non è una carestia come ne avete conosciute» disse Nunyunnini attraverso la bocca di Gugwei, «anche se la carestia verrà.»

«Allora cosa sarà?» domandò Yanu. «Io non ho paura. L’affronterò. Abbiamo lance, e pietre. Avremo la meglio anche su cento guerrieri invincibili. Li condurremo negli acquitrini e lì, con le nostre pietre, spaccheremo loro la testa.»
«Non è faccenda d’uomini» disse Nunyunnini con la vecchia voce di Gugwei. «Arriverà dal cielo, e né le tue lance né le tue pietre potranno niente.»

«Come faremo a proteggerci?» chiese Atsula. «Ho visto fiamme nel cielo. Ho udito rumori più assordanti del tuono. Ho visto foreste rase al suolo e fiumi in ebollizione.»
«Ahi…» disse Nunyunnini, ma non aggiunse altro. Gugwei uscì dal cranio del mammut piegandosi a fatica, perché era un uomo anziano, con le articolazioni gonfie e rigide.
Seguì un lungo silenzio. Atsula gettò altre foglie tra le fiamme e il fumo fece lacrimare gli occhi a tutti e quattro.

Poi fu Yanu a introdurre la testa nel cranio, a stringersi il mantello intorno alle spalle possenti. La sua voce rimbombò nella tenda. «Dovete mettervi in cammino» disse Nunyunnini. «Dovete viaggiare in direzione del sole. Là dove sorge il sole, troverete una nuova terra e sarete salvi. Sarà un lungo viaggio: la luna nascerà e morirà due volte, incontrerete mercanti di schiavi e belve feroci, ma io vi guiderò e vi proteggerò, se viaggerete verso il sole.»

Atsula sputò sul pavimento fangoso e disse «No.» Sentiva su di sé lo sguardo del dio. «No» ripeté. «Sei una divinità cattiva se ci ordini di partire. Moriremo. Moriremo tutti e allora chi rimarrà per trasportarti da una piattaforma all’altra, per montare la tua tenda, per ungere di grasso le tue grandi zanne?»
Il dio non rispose. Atsula prese il posto di Yanu e fissò dalle orbite vuote e ingiallite del mammut.

«Atsula non ha fede» disse Nunyunnini con la voce della sacerdotessa. «Atsula morirà prima che il resto della tribù entri nella nuova terra, ma la tribù vivrà. Abbiate fede in me: a oriente c’è una terra disabitata. Sarà la vostra terra e la terra dei vostri figli e dei figli dei vostri figli per sette generazioni e sette volte sette. Se Atsula non avesse dubitato sarebbe stata vostra per sempre. Al mattino raccoglierete le vostre tende e i vostri averi e partirete verso il sole.»

E Gugwei, Yanu e Kalanu chinarono il capo e inneggiarono alla potenza e alla saggezza di Nunyunnini.
La luna divenne piena e calò, rinacque e calò nuovamente. La gente della tribù camminava verso oriente, verso il sole nascente, lottando contro i venti gelidi che bruciavano la pelle. Nunyunnini aveva promesso il vero: durante il viaggio non persero nessun membro della tribù eccetto una donna che morì di parto, ma le partorienti appartengono alla luna, non a Nunyunnini.

Attraversarono il ponte che univa i continenti.
Kalanu era partita alle prime luci dell’alba per esplorare il terreno. Adesso era buio e non era ancora tornata, il cielo era popolato di stelle che pulsavano luminose, vive e in movimento, bianche e verdi, viola e rosse. Atsula e la sua gente avevano già visto l’aurora boreale e ne avevano ancora paura, ma questo era uno spettacolo perfino più spaventoso.
Kalanu tornò quando le luci inondavano il cielo.

«Ci sono momenti» disse ad Atsula «in cui mi pare che potrei spalancare le braccia e volare in cielo.»
«Perché sei una guida» le rispose la sacerdotessa. «Quando morirai andrai in cielo e diventerai una stella che ci guiderà come ci hai guidato in vita.»
«A oriente ci sono montagne di ghiaccio, molto alte» disse Kalanu dai lunghi capelli corvini secondo la foggia maschile. «Possiamo scalarle, ci vorranno molti giorni.»

«Ci condurrai al sicuro» disse Atsula, «io morirò ai piedi di una montagna, e la mia morte sarà il sacrificio per il vostro passaggio nella nuova terra.»
A occidente, nelle terre da cui erano venuti, dove il sole era tramontato già da ore, il cielo fu squarciato da una luce spaventosamente gialla, più violenta del lampo, più intensa del sole. Un’esplosione di puro fulgore che spinse tutti quelli che stavano attraversando il ponte a coprirsi gli occhi, sputando e gridando. I bambini piangevano.

«Quella è la disgrazia da cui ci aveva messo in guardia Nunyunnini» disse Gugwei l’anziano. «È un dio saggio e potente.»
«Il migliore degli dèi» disse Kalanu. «Nella nuova terra gli innalzeremo un’alta piattaforma e lucideremo le sue zanne e il suo cranio con olio di pesce e grasso animale, e racconteremo ai nostri figli e ai figli dei nostri figli e ai figli dei figli per sette generazioni che Nunyunnini è l’onnipotente e che non dovrà mai essere dimenticato.»


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