American Gods

American Gods

Neil Gaiman

Wednesday chiuse la rivista. «È ridicolo. Ho fatto male a venire qui. Shadow, ce ne andiamo.» Il gatto grigio, importunato, si alzò dal divano e andò sul tavolino, accanto alla scacchiera. Fissò i pezzi, poi saltò sul pavimento e uscì dalla stanza con la coda ritta.

«No» disse Shadow. Non aveva paura di morire. Dopotutto non è che avesse una buona ragione per vivere. «Mi sta bene. Accetto. Se vince lei ha la possibilità di fracassarmi il cranio con un colpo di mazza» e mosse una pedina sulla casella accanto al bordo della damiera.
Non c’era altro da aggiungere, tuttavia Wednesday non riprese a leggere il "Reader’s Digest". Rimase a osservare la partita con l’occhio di vetro e l’occhio buono, e un’espressione che non lasciava trapelare niente.

Chernobog si mangiò un altro bianco. Shadow due neri. Dal corridoio arrivavano gli odori di una cucina sconosciuta. Benché non fossero tutti stuzzicanti Shadow si rese improvvisamente conto di essere molto affamato.

I due uomini muovevano i loro pezzi, a turno. Un sacco di pedine mangiate, una fioritura di dame: non più costrette a muoversi solo in avanti, una casella alla volta, le dame potevano andare in ogni direzione, il che le rendeva doppiamente pericolose. Erano arrivati alla linea di base della damiera e adesso potevano andare ovunque. Chernobog ne aveva tre, Shadow due.
Chernobog mosse una dama mangiandosi tutte le pedine dell’avversario mentre con le altre due gli teneva bloccate le sue.

E poi ne conquistò una quarta e senza sorridere si mangiò le due dame di Shadow. La partita era finita.
«Allora» disse, «ti posso fracassare il cranio. E tu ti metterai in ginocchio senza fare storie. Bene.» Allungò una mano e batté una pacca sul braccio di Shadow.
«C’è ancora tempo, prima di cena» disse Shadow. «Vuole farne un’altra? Alle stesse condizioni?»
Chernobog si accese una sigaretta con un fiammifero da cucina. «Come, alle stesse condizioni? Vuoi che ti uccida due volte?»

«Al momento lei dispone di un colpo solo. Mi ha detto lei stesso che non si tratta soltanto di forza, che ci vuole soprattutto abilità. Così se vince anche questa volta ha a disposizione due colpi.»
Chernobog lo guardò torvo. «Ne basta uno, uno solo. In questo consiste l’arte.» Si batté sull’avambraccio destro, dov’erano i muscoli, con la mano sinistra, spargendo cenere dappertutto.

«È passato tanto tempo. Se avesse perso l’abilità mi potrebbe ferire e basta. Quand’è stata l’ultima volta che ha tirato un colpo di mazza al mattatoio? Trent’anni fa? Quaranta?»
Chernobog non disse niente. La bocca chiusa era un taglio grigio nella faccia. Tamburellò le dita sul tavolino di legno, a ritmo. Poi rimise i ventiquattro pezzi al loro posto sulla damiera.
«Gioca» disse. «Tu hai ancora i chiari. Io gli scuri.»

Shadow fece la prima mossa. Chernobog rispose e Shadow capì che l’altro avrebbe ripetuto lo stesso schema di gioco della partita appena vinta, e che quello era il suo limite.
Allora giocò in maniera avventata. Approfittando di ogni opportunità che gli si presentava, oppure muovendo senza riflettere, senza fermarsi a pensare. E questa volta giocando sorrideva; e ogni volta che toccava a Chernobog il suo sorriso diventava più largo.

Di lì a poco Chernobog cominciò a muovere le pedine bruscamente, picchiandole sul tavolo con tanta forza da far tremare quelle rimaste sulle caselle nere.
«Ecco» disse prendendo una pedina di Shadow con fracasso e mettendo giù la nera con un tonfo. «Ecco. Cosa te ne pare?»

Shadow non rispose: si limitò a sorridere e soffiò la pedina che Chernobog aveva appena mosso, poi un’altra e un’altra ancora, e una quarta, spazzando via tutte le nere dal centro della damiera. Prese una pedina bianca dal mucchietto sul tavolo e fece la sua dama.
Dopo di che rastrellò le pedine restanti in poche mosse e la partita era finita.
«Facciamo la bella?»

Chernobog lo fissò, gli occhi grigi come aculei di acciaio. Poi rise, battendogli grandi pacche sulle spalle. «Tu mi piaci!» esclamò. «Hai le palle.»
In quel momento Utrennjaja Zarja infilò la testa in salotto per dire che la cena era pronta e che dovevano sgomberare il tavolo e stendere la tovaglia.
«Non abbiamo una sala da pranzo» disse. «Mi dispiace. Mangiamo qui.»

I piatti di portata furono sistemati sul tavolino e ciascuno dei commensali venne dotato di un vassoietto di legno smaltato su cui erano appoggiate le posate annerite da tenere sulle ginocchia.
Vechernjaja Zarja prese cinque scodelle e mise dentro ciascuna una patata bollita con la buccia su cui versò un’abbondante porzione di borsch dal violento color cremisi. Aggiunse un cucchiaio di panna acida in ogni scodella e le servì.
«Credevo che fossimo in sei» disse Shadow.

«Polunochnaja Zarja dorme ancora» disse Vechernjaja Zarja. «Le teniamo la cena in frigorifero. Mangerà quando si alza.»
Nel borsch c’era troppo aceto, sembrava di mangiare barbabietole in salamoia. La patata bollita era farinosa.
Per secondo c’era un brasato coriaceo accompagnato da verdure non meglio identificate, bollite così a lungo e in modo così efficace che nessuno, nemmeno con il più grande sforzo di immaginazione, le avrebbe potute riconoscere, essendo praticamente ridotte in poltiglia.

Poi c’erano foglie di verza stufate con carne macinata e riso, foglie talmente dure da non poter essere tagliate senza spargere carne e riso su tutto il tappeto. Shadow spostò la sua nel piatto senza mangiarne.

«Abbiamo giocato a dama» disse Chernobog servendosi un altro blocchetto grumoso di brasato. «Io e il giovanotto. Lui ha vinto una partita. Io ne ho vinto un’altra. Siccome ha vinto vado con lui e Wednesday, e li aiuto nella loro follia. E siccome ho vinto anch’io, quando sarà tutto finito potrò ucciderlo con un colpo di mazza.»

Le due Zarja annuirono gravemente. «Un vero peccato» commentò Vechernjaja Zarja rivolgendosi a Shadow. «Se ti avessi letto la sorte avrei previsto per te una lunga vita felice, con molti figli.»
«È per questo che sei brava a leggere il futuro» disse Utrennjaja Zarja. Aveva un’aria assonnata, come se restare sveglia fino a quell’ora le costasse uno sforzo. «Sei la più brava a dire bugie.»

Finito di mangiare, Shadow aveva ancora fame. Il cibo che gli davano in carcere, pur pessimo, era sempre meglio di questo.
«Ottimo» disse Wednesday dopo aver ripulito il piatto con palese soddisfazione. «Vi ringrazio, gentili signore. E ora temo che il dovere ci imponga di chiedervi di indicarci un buon albergo nei dintorni.»
Vechernjaja Zarja assunse un’aria offesa. «Perché mai andare in albergo? Non siamo forse tuoi amici?»
«Non vorrei disturbare…» disse Wednesday.

«Nessun disturbo» intervenne Utrennjaja Zarja sbadigliando e giocherellando con quei suoi capelli dal biondo tanto incongruo.
«Tu puoi dormire nella stanza di Bielebog» disse Vechernjaja Zarja, indicando Wednesday. «È vuota. In quanto a te, giovanotto, ti preparerò il letto sul divano. Starai più comodo che in un letto di piume. Lo giuro.»
«È molto gentile da parte vostra» rispose Wednesday. «Accettiamo.»

«E mi dai quello che pagheresti per l’albergo» continuò Vechernjaja Zarja con uno scatto trionfante della testa. «Cento dollari.»
«Trenta».
«Cinquanta.»
«Trentacinque.»
«Quarantacinque.»
«Quaranta.»

«D’accordo. Quarantacinque dollari.» Vechernjaja Zarja si protese e strinse la mano di Wednesday, poi cominciò a sparecchiare. Utrennjaja Zarja sbadigliava tanto che Shadow si preoccupò per la sua mascella, poi annunciò che andava a letto perché stava per addormentarsi con la faccia nel piatto e disse buonanotte a tutti.

Shadow aiutò Vechernjaja Zarja a portare piatti e scodelle nel cucinino dove sotto l’acquaio trovò, con sua grande sorpresa, una vecchia lavastoviglie che cominciò a riempire. Affrettandosi a togliere le scodelle dì legno Vechernjaja Zarja lo guardò con aria di disapprovazione. «Queste vanno nel lavandino» disse.
«Mi dispiace.»
«Non preoccuparti. Adesso torniamo di là a mangiare la torta.»

La torta, un’apple pie comperata in pasticceria e riscaldata nel forno, era molto, molto buona. La mangiarono con il gelato e poi Vechernjaja Zarja fece uscire tutti e preparò sul divano un giaciglio molto confortevole. Wednesday parlò con Shadow nel corridoio.
«Prima, quello che hai fatto con la dama» disse.
«Sì?»
«Ben fatto. Molto stupido da parte tua. Anzi, stupidissimo. Ma ben fatto. Dormi bene.»

Nel minuscolo bagno Shadow si lavò i denti e la faccia con l’acqua fredda, poi tornò in salotto, spense la luce e si addormentò ancor prima di avere appoggiato la testa sul cuscino.

C’erano esplosioni, nel sogno: Shadow guidava un camion in un campo minato e le mine scoppiavano da tutte le parti. Il parabrezza andò in frantumi e lungo la faccia gli scorreva un rivolo di sangue.
Qualcuno gli stava sparando.

Un proiettile gli perforò un polmone, un altro gli frantumò la spina dorsale, un altro gli si conficcò nella spalla. Li sentì entrare, a uno a uno. Si accasciò sul volante.
L’ultima esplosione culminò nella tenebra.
Dev’essere un sogno,
pensò, solo, al buio.
Credo di essere morto.
Ricordò di aver sentito dire, da bambino, credendoci, che se muori in sogno muori anche nella realtà. Però in quel momento non si sentiva morto. Provò ad aprire gli occhi.

Nel piccolo salotto, in piedi davanti alla finestra, c’era una donna. Col cuore in gola la chiamò. «Laura?»
La donna si voltò, incorniciata dalla luna. «Mi dispiace» disse. «Non volevo svegliarti.» Aveva un lieve accento dell’Europa dell’Est. «Me ne vado subito.»
«No, resta» disse Shadow. «Non mi hai svegliato. Stavo sognando.»
«Sì. Gridavi, gemevi. Avrei voluto scuoterti, ma poi mi sono detta, no, devo lasciarlo stare.»

Aveva i capelli chiari, quasi bianchi alla debole luce lunare. Indossava una camicia da notte di cotone bianco con un colletto alto, di pizzo, lunga fino ai piedi. Shadow si mise seduto, completamente sveglio. «Tu sei Zarja Polu…» esitò «la sorella che dormiva.»
«Sì, sono Polunochnaja Zarja. E tu ti chiami Shadow, vero? Così mi ha detto Vechernjaja Zarja quando mi sono svegliata.»
«Sì. Che cosa stavi guardando, là fuori?»

Lei gli fece cenno di avvicinarsi alla finestra. Si voltò quando lui si infilò i jeans. Le si avvicinò. Sembrava un lungo percorso, per una stanza così piccola.
Non riusciva a capire quanti anni avesse. La sua pelle era levigata, gli occhi scuri con le ciglia lunghe e folte, i capelli bianchi lunghi fino alla vita. La luce della luna attenuava i colori trasformandoli in spettri di se stessi. Era più alta delle sorelle.

Gli indicò il cielo. «Stavo guardando quella» disse puntando il dito. «La vedi?»
«L’Orsa Maggiore» disse lui.
«È un modo di vedere le cose» disse. «Che non è quello del posto da cui provengo io. Vado a sedermi sul tetto. Vuoi venire con me?»

Aprì la finestra e si arrampicò, scalza, sulla scala antincendio. Il vento era gelido. C’era qualcosa che inquietava Shadow, ma non sapeva che cosa; esitò, poi si infilò maglione, calze e scarpe e seguì la donna sulla scala arrugginita. Lei lo stava aspettando. Nell’aria fredda il fiato di Shadow sembrava vapore. La guardò salire a piedi nudi gli scalini di metallo ghiacciati e la seguì su fino al tetto.

Le raffiche di vento le incollavano la camicia da notte al corpo, e Shadow si rese conto con disagio che, sotto, Polunochnaja Zarja non indossava niente.
«Non soffri il freddo?» le chiese quando arrivarono in cima alle scale e il vento sferzava via le sue parole.
«Come?»
Chinò il viso verso di lui. Aveva un alito dolce.
«Ti ho domandato se non senti freddo.»

In risposta lei alzò un dito: "aspetta", sembrava dire. Con un balzo leggero saltò sul tetto. Salì anche Shadow, meno leggiadramente, e la seguì fino all’ombra della cisterna dell’acqua. Lì li aspettava una panchina di legno; lei vi si sedette e lui la imitò. La cisterna li riparava dal vento e Shadow gliene fu grato.
«No» disse lei. «Non soffro il freddo. Questo è il mio tempo: di notte mi sento a mio agio, come un pesce nell’acqua.»

«La notte ti deve piacere molto» disse lui rammaricandosi subito di non aver detto qualcosa di più saggio e profondo.
«Le mie sorelle appartengono al loro tempo. Utrennjaja Zarja appartiene all’alba. Nel nostro paese si svegliava per aprire i cancelli e far uscire nostro padre con il… mi dimentico sempre questa parola, è come una carrozza a cavalli?»
«Cocchio?»

«Con il suo cocchio. Nostro padre usciva con il cocchio. E Vechernjaja Zarja gli riapriva i cancelli al crepuscolo, quando tornava da noi.»
«E tu?»
Lei non rispose subito. Aveva le labbra piene, ma molto pallide. «Io non lo vedevo mai. Dormivo.»
«È una malattia?»
Lei non rispose. Quando scrollò le spalle, se le scrollò, lo fece in maniera impercettibile. «Dunque. Volevi sapere che cosa stavo guardando.»
«L’Orsa Maggiore.»

Lei alzò un braccio per indicarla e il vento le incollò la camicia da notte sul corpo. I capezzoli, ogni millimetro di pelle d’oca sul seno furono per un momento visibili, scuri contro il cotone bianco. Shadow ebbe un brivido.

«Il Grande Carro di Odino, lo chiamano. Oppure Orsa Maggiore. Nel posto da dove vengo io crediamo che ci sia una cosa, una… non una divinità ma qualcosa di simile, una creatura cattiva, incatenata a quelle stelle. Se scappasse si mangerebbe tutto il mondo. E perciò ci sono tre sorelle che giorno e notte sorvegliano il cielo senza sosta. Se si liberasse, quella cosa tra le stelle, il mondo finirebbe,
puf,
così.»
«E la gente ci crede?»
«Ci credeva. Tanto tempo fa.»

«E tu guardavi per cercare di individuare il mostro incatenato alle stelle?»
«Sì. Qualcosa del genere.»
Shadow sorrise. Se non ci fosse stato quel gran freddo, pensò, avrebbe creduto di sognare. Sembrava tutto un sogno.
«Ti posso chiedere quanti anni hai? Le tue sorelle sembrano molto più anziane di te.»

Lei annuì. «Sono la più giovane. Utrennjaja Zarja è nata al mattino, e Vechernjaja Zarja di sera, io invece sono nata a mezzanotte. Sono la sorella della mezzanotte, Polunochnaja Zarja. Sei sposato?»
«Mia moglie è morta. È morta la settimana scorsa in un incidente di macchina. C’è stato il funerale ieri.»
«Mi dispiace.»
«Ieri notte è venuta a trovarmi.» Non era stato difficile dirlo; nell’oscurità, con la luna, non era impensabile come alla luce del giorno.
«Le hai chiesto che cosa voleva?»

«No. Non gliel’ho chiesto.»
«Forse dovresti. È la cosa più saggia da chiedere ai morti. Qualche volta te lo dicono. Vechernjaja Zarja mi ha raccontato che hai giocato a dama con Chernobog.»
«Sì. Ha vinto il diritto di darmi una mazzata in testa.»
«Nei tempi antichi portavano la gente in cima alla montagna. Sulle vette più alte. Lì gli fracassavano la nuca con una pietra. In onore di Chernobog.»
Shadow si guardò intorno. No, erano proprio soli, sul tetto.

Polunochnaja Zarja rise. «Non è qui, sciocco. E anche tu hai vinto una partita. Forse non colpirà fino a quando non sarà tutto finito. Ha detto che non lo avrebbe fatto. E tu te ne accorgerai. Come le mucche che uccideva al macello. Se ne accorgevano sempre. Altrimenti che senso avrebbe?»

«Mi sento» cominciò Shadow «come in un mondo con una logica tutta sua. Con regole proprie. Come quando sogni, e sai che ci sono regole che non puoi infrangere. Anche se non sai che cosa significhino. Seguo la corrente, capisci?»

«Capisco» disse lei. Gli afferrò una mano con la sua, fredda gelata. «Ti è già stata data una protezione. Ti è stato dato il sole. Ma l’hai perso subito. L’hai dato via. Quello che ti posso dare io offre una protezione minore. È la figlia, non il padre. Comunque può sempre servire. La vuoi?» Il vento freddo le faceva svolazzare i capelli intorno al viso.
«Devo fare a pugni con te? Sfidarti a dama?»
«Non mi devi nemmeno baciare» rispose lei. «Prendi soltanto la luna.»
«Come?»
«Prendi la luna.»

«Non capisco.»
«Guarda» disse Polunochnaja Zarja. Alzò la mano sinistra e la tenne ferma davanti alla luna come se volesse afferrarla tra pollice e indice. Poi, con un movimento delicato, la colse. Per un istante sembrò che l’avesse staccata davvero dal cielo, ma Shadow vide che la luna continuava a brillare mentre Polunochnaja Zarja apriva la mano per mostrare un dollaro d’argento con la testa della Statua della Libertà.

«Stupendo» disse Shadow. «Non ho visto come hai fatto. E non conosco il trucco.»
«Non c’è nessun trucco» disse lei. «L’ho presa. E adesso la do a te, perché ti protegga. Tieni. Non dare via anche questa.»
Gli appoggiò la moneta sul palmo della mano destra e gli richiuse le dita intorno. La moneta era fredda. Polunochnaja Zarja si protese, gli chiuse gli occhi con un dito e lo baciò leggermente sulle palpebre.

Quando si risvegliò Shadow era sul divano vestito di tutto punto. Una lama di luce entrava dalla finestra facendo danzare il pulviscolo nella stanza.
Si alzò e si avvicinò alla finestra. Alla luce del sole la stanza sembrava molto più piccola.
Si rese conto di cosa lo inquietava fin dalla notte precedente, mentre guardava fuori e dall’altra parte della strada. Non c’era nessuna scala antincendio fuori da quella finestra: nessun balcone, nemmeno un rugginoso scalino di metallo.

Eppure in mano stringeva una rara moneta d’argento da un dollaro del 1922 con la testa della Libertà, lucida come il giorno in cui era stata coniata.
«Oh. Ti sei alzato» disse Wednesday infilando la testa nella stanza. «Bene. Vuoi un caffè? Dobbiamo andare a rapinare una banca.»

L’arrivo in America
1721

È importante capire,
scrisse il signor Ibis nel suo diario rilegato in pelle,

che la storia americana è un frutto della fantasia, ingenuo schizzo a carboncino fatto per i bambini, o per chi si annoia facilmente. Per la massima parte non verificata, né immaginata o pensata, bensì pura rappresentazione della cosa, non la cosa in sé. Una buona invenzione,
continuò fermandosi soltanto per intingere la penna nel calamaio e raccogliere i pensieri,

che l’America sia stata fondata dai pellegrini in cerca della libertà di fede venuti nelle Americhe per moltiplicarsi e diffondersi e occupare dello spazio vuoto.

In verità, le colonie americane erano la discarica della società, oltre che meta di fuga e di oblio. All’epoca in cui a Londra si veniva mandati al patibolo per aver rubato dodici penny, le Americhe divennero simbolo di clemenza, di una seconda possibilità. Ma le condizioni della deportazione erano talmente dure che qualcuno trovava più semplice fare un salto da quell’albero spoglio e sgambettare nel vuoto una volta per tutte. Deportazione, la chiamavano: per cinque, dieci anni, per tutta la vita. Questa era la condanna.

Venivi venduto a un comandante, e sulla sua nave, piena come una nave negriera, viaggiavi fino alle colonie o alle Indie Occidentali; una volta a terra ti vendeva come servo a contratto a chiunque volesse ripagarsi il costo della tua pellaccia in lavoro fino alla scadenza della pena che dovevi scontare. Ma perlomeno non restavi in una prigione inglese ad aspettare di essere impiccato (perché all’epoca le prigioni erano luoghi di transito in attesa di liberazione, deportazione, o impiccagione, non vi si scontava una condanna) ed eri libero di approfittare del nuovo mondo. Eri anche libero di corrompere un comandante e farti riportare in Inghilterra prima della scadenza del termine. Succedeva. E se le autorità ti beccavano in patria — se un vecchio nemico, o un vecchio amico con un conto in sospeso ti vedevano e facevano la spia — allora venivi impiccato sui due piedi.

Mi torna in mente,
continuò Ibis dopo una breve pausa durante la quale riempì il calamaio con l’inchiostro scuro che teneva nella bottiglia dentro l’armadio e intinse la penna,

la vita di Essie Tregowan, nata in un freddo villaggio in cima a una scogliera della Cornovaglia, nel Sudovest dell’Inghilterra, dove la sua famiglia viveva da tempo immemorabile. Suo padre era pescatore, e si diceva che fosse uno di quelli che provocavano i naufragi a scopo di saccheggio, quelli che quando la burrasca infuriava appendevano le lampade sulle rupi più alte per far schiantare le navi sugli scogli e depredarne le merci che trasportavano. La madre di Essie lavorava come cuoca nella casa del principale possidente della zona, e a dodici anni anche Essie cominciò a lavorare in cucina, come sguattera. Era una cosetta piccola e magra, con grandi occhi scuri e capelli castani; non una gran lavoratrice, cercava sempre di scappare per andare ad ascoltare favole e racconti, se c’era in giro qualcuno a raccontarli: storie di pixy e spriggan, dei cani neri delle brughiere e delle sirene della Manica. E benché il signorotto ne ridesse, ogni sera i servi mettevano un piattino di porcellana con la panna, davanti alla porta della cucina, per i pixy.


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