American Gods

American Gods

Neil Gaiman

Stavano già perdendo i denti e avevano gli occhi infossati nelle orbite quando trovarono approdo sulla terra verdeggiante di Occidente. Gli uomini dissero: «Siamo lontani, lontani dalle nostre case, dai focolari, lontani dai mari che conosciamo e dalle terre che amiamo. Qui al confine del mondo i nostri dèi ci dimenticheranno».

Il capo si arrampicò in cima a una grande roccia e li schernì per la loro mancanza di fede. «Il Padre Universale ha creato il mondo» gridò. «Lo ha fatto con le sue mani dalle ossa e dalla cenere di Ymir, suo nonno. Ha messo il cervello di Ymir nel cielo per farne nubi, e il suo sangue salato è diventato il mare che abbiamo attraversato. Non vi rendete conto che se ha creato il mondo ha creato anche questa terra? E che se in questa terra moriremo da uomini verremo accolti nella sua dimora?»

E gli uomini lo acclamarono ed esultarono. Con tronchi e fango si dedicarono volonterosamente alla costruzione di una sala circondata da una palizzata di legni appuntiti, anche se, a quanto ne sapevano, erano i soli ad abitare la nuova terra.

Il giorno in cui finirono di costruirla scoppiò un temporale: a mezzogiorno il cielo divenne nero come la notte, squarciato da saette di fuoco bianco, e i tuoni erano tanto fragorosi da assordare, e il gatto di bordo che avevano portato per attirare la fortuna andò a nascondersi sotto la nave arenata sulla spiaggia. Il temporale era così violento che gli uomini scoppiarono a ridere, e battendosi gran pacche sulle spalle l’un l’altro dissero: «Il signore del tuono è con noi, in questa terra lontana» e levarono grazie, e si rallegrarono e bevettero fino a ubriacarsi.

Nella dimora fumosa quella notte il bardo cantò le canzoni antiche. Cantò di Odino, Padre Universale, che si era sacrificato a se stesso con il coraggio e la nobiltà con cui gli altri venivano sacrificati a lui. Cantò dei nove giorni che il Padre Universale trascorse appeso all’albero del mondo, il sangue grondante dalla ferita nel fianco provocata dalla punta della lancia, e cantò per loro tutto ciò che il Padre Universale aveva imparato durante l’agonia: nove nomi, nove rune, e incantesimi per due volte nove. Quando narrò della lancia che ferì Odino nel fianco, il bardo gridò di dolore insieme a lui e gli uomini tutti rabbrividirono, nell’immaginare la sua pena.

L’indomani, che era il giorno dedicato al Padre Universale, trovarono lo scraeling. Era un uomo di bassa statura, con i capelli lunghi e neri come l’ala di un corvo, la pelle del colore dell’argilla grassa. Parlava una lingua che nessuno poteva comprendere, neppure il bardo, che aveva navigato attraverso le colonne d’Ercole e conosceva il gergo che parlano i mercanti in tutto il Mediterraneo. Lo straniero era coperto di piume e pellicce, e nei capelli portava intrecciate piccole ossa.

Lo condussero all’accampamento e gli servirono carne arrostita perché mangiasse in abbondanza e una bevanda forte perché placasse la sete. Risero sfrenatamente quando l’uomo barcollò e cantò, ciondolando la testa, già ubriaco dopo un solo corno di idromele. Gliene versarono ancora, e ben presto l’uomo finì sotto il tavolo con un braccio sopra la testa.

Poi lo presero, un uomo per ogni spalla, un uomo per ogni gamba, e lo trasportarono così, trasformato in un cavallo a otto zampe dai quattro portatori, in processione fino al frassino in cima alla collina che si affacciava sulla baia, gli passarono una fune intorno al collo e lo impiccarono alto nel vento come tributo al Padre Universale, il signore delle forche. Il corpo dello scraeling ondeggiò al vento, la faccia sempre più nera, la lingua di fuori, gli occhi sporgenti, il pene talmente rigido da poterci appendere un elmo di cuoio, mentre gli uomini festeggiavano con urla e risate, orgogliosi di innalzare al cielo il sacrificio.

E il giorno dopo, quando due enormi rapaci si appollaiarono sul cadavere, uno per spalla, e cominciarono a becchettare gli occhi e le guance, gli uomini capirono che il loro sacrificio era stato accettato.

Fu un inverno lungo, e avevano fame, tuttavia li rallegrava il pensiero che a primavera avrebbero fatto vela per le terre nordiche, per ritornare con altri uomini, e con le donne. Via via che il clima si faceva più freddo, e i giorni diventavano più corti, alcuni di loro si spinsero fino al villaggio degli scraeling nella speranza di trovare cibo e donne. Non trovarono che le ceneri degli accampamenti abbandonati in fretta e furia. Nel pieno dell’inverno, quando il sole era freddo e distante come un’opaca moneta d’argento, videro che i resti del corpo dello scraeling non penzolavano più dal frassino. Quel pomeriggio nevicò, fiocchi lenti, enormi.

Gli uomini delle terre scandinave chiusero i cancelli dell’accampamento e si ritirarono dietro le mura di legno.
Gli indiani sul sentiero di guerra attaccarono quella notte, e il villaggio venne bruciato. La nave capovolta sulla spiaggia di ciottoli venne bruciata, nella speranza che quei pallidi stranieri avessero una sola imbarcazione, nella speranza di assicurarsi, bruciandola, che nessun altro nordico approdasse alle loro rive.

Accadeva più di cent’anni prima che Leif il Fortunato, figlio di Erik il Rosso, riscoprisse quella stessa terra che avrebbe chiamato Vinland. I suoi dèi già lo aspettavano: Tyr con una mano sola, e il grigio Odino signore delle forche, e Thor dio dei tuoni.
Erano lì.
In attesa.


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