Un po’ di (mal)sana introspezione
www.luniversitario.itCi sentiamo spesso raccontare che la maturità, la profondità, l’essere delle “belle persone” derivano in gran parte da un certo livello di conoscenza di sé, di autoconsapevolezza, di autonomia emotiva. Per questo motivo, siamo condotti spesso – un po’ spontaneamente, un po’ dalla nostra società iper individualista – verso un’attività introspettiva che ci permetta di capirci meglio, di spiegare le nostre azioni agli altri e convincere noi stessi di aver fatto quelle giuste. In questo percorso, però, ci sono punti in cui è facile inciampare: vediamo allora, In Punta di Piedi, come e a cosa fare attenzione.
Partiamo definendo il concetto di introspezione, che in filosofia è intenso come un mezzo per conoscere i propri stati e processi mentali in corso o recenti: si tratta, quindi, di un processo psicologico che, da una prospettiva interna, ci fa analizzare i nostri pensieri, emozioni, giudizi e percezioni. I due focus più comuni sono gli atteggiamenti, quindi le credenze, i desideri, le valutazioni e le intenzioni, e le esperienze coscienti, ovvero le emozioni, le immagini e gli eventi che coinvolgono la sfera sensoriale.
Questo tipo di attività richiede una serie di condizioni per essere svolta coerentemente. Tra queste spicca quella di prima persona, che enfatizza la natura del processo, volto infatti a generare conoscenza e giudizi solo sulla propria mente e su quella di nessun altro. Oltre a questa, la condizione di impegno ci ricorda invece che “l’introspezione non è costante, senza sforzo e automatica”, bensì implica una sorta di “riflessione speciale sulla propria vita mentale, che si differenzia dal normale flusso di pensiero e azione”. Infine le altre, legate alla mentalità, alla prossimità temporale e all’individuazione, rimarcano come sia necessario distinguere le esperienze sensoriali (il dolore fisico, per fare un esempio) dalle condizioni mentali (come ci rapportiamo a quel dolore) ed essere in grado di rilevare un preciso stato mentale su cui riflettere che non sia un semplice “resoconto automatico della nostra coscienza”.
Queste definizioni, per quanto sembrino complesse, ci aiutano comunque ad imparare un paio di utili lezioni. La prima è che, quando ci analizziamo, siamo spesso troppo propensi verso l’esterno: ci studiamo come amici, colleghi, impiegati, figli, partner, alunni e poche volte come individui, ovvero come gli esseri umani che siamo e che poi mettiamo quotidianamente in relazione con il mondo esterno. Questo porta ad una scarsa conoscenza di sé e, per questo, talvolta anche ad atteggiamenti di people pleasing, perché non avendo una nostra identità solida di riferimento ci adattiamo e modelliamo a quella degli altri.
La seconda è che cercare ossessivamente spiegazioni ad un passato lontano, specialmente se non abbiamo ausili come uno psicologo o un diario di bordo scritto all’epoca, richiede una fatica smisurata e dà risultati molto scarsi. Non a caso, infatti, manca proprio la condizione di prossimità temporale sopra menzionata: tornare alla mentalità che avevamo in quel periodo e al modo in cui effettivamente reagivamo al mondo esterno è estremamente difficile e, per questo, è facile giungere a conclusioni inesatte.
Allo stesso modo, la dedizione con la quale tanto spesso ci dedichiamo all’overthinking è molto lontana da un’onesta attività di introspezione. Da una parte, ripensare ossessivamente al mondo intorno a noi è, ancora una volta, “solo” una proiezione verso l’esterno ed è quindi inquinata da una serie di elementi inutili in più; dall’altra, anche quando cerchiamo di capire a tutti i costi cosa ha portato qualcuno a fare certe cose (sì, anche quelle cose che abbiamo dovuto subire noi), non rispettiamo la condizione di prima persona, cioè quella che ci ricorda che l’unica mente sulla quale possiamo lavorare è la nostra. In generale, poi, l’introspezione è calma, non pensieri ossessivi, ansia e tachicardia, ma un momento di riflessione speciale separato dalla vita quotidiana.
Infine, vale la pena spendere qualche parola su un ultimo punto: la sincerità. Spesso è difficile riuscire a conoscerci e capirci davvero perché noi in primis ci raccontiamo tante bugie, che sia il non aver mai bisogno di aiuto, la negazione delle emozioni tristi o la sovrapposizione dei nostri veri sogni e ambizioni con quelli che, con prepotenza o meno, sono imposti (o quantomeno fomentati) dalla famiglia o dalla società. Diventa allora poi difficile anche avere fiducia in sé perché, così come con amici e fidanzati, anche con noi stessi la fiducia nasce dall’onestà e da una conoscenza profonda della persona che abbiamo davanti o, in questo caso, dentro. Anche solo per questo, quindi, vale la pena imparare non solo a conoscerci, ma anche a crearci, nel senso di capire in che modo la nostra mente ha funzionato finora e cosa migliorare per renderci la vita un po’ più leggera e piacevole.
Correlati
Source www.luniversitario.it