Un brano tratto da ''Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?''

Un brano tratto da ''Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?''

Massimo Bontempelli (2000, Koiné, nn.1/2 Gennaio/Giugno 2000, Editrice C.R.T.)
Questo brano è tratto dall'articolo di Massimo Bontempelli dal titolo ''Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?'' pubblicato nella rivista Koiné nel 2000 (nn.1/2 Gennaio/Giugno 2000, pagine 28 e 29). © 2000 by Editrice C.R.T. I numeri tra parentesi tonda indicano in quale pagina della rivista si trova il testo. I riferimenti ad altri testi, legati a questo, si trovano nel sito Temi e Reti.

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Il meccanismo economico autoreferenziale che domina in maniera ormai totalitaria la società non soltanto non può creare ricchezza se non allargando la povertà (e già questo lo rende abbastanza insensato), ma non può neppure creare ricchezza se non con sistemi che vincolano sempre più tutti alla pura materialità della dinamica economica, sottoponendo ogni individuo alle richieste necessitanti dei mercati e delle tecniche, ormai rivolti all'intero insieme dei modi di essere umani. Sotto questo aspetto l'insensatezza sociale dell'odierno meccanismo economico totalitariamente dominante è veramente completa. Nelle epoche passate, infatti, l'ingiusto sfruttamento del lavoro consentiva almeno a coloro che a vari livelli ne beneficiavano di sottrarre la propria vita alle cogenze e alle scansioni temporali dell'economia, per dedicarla ad altre sfere di interesse.


La società odierna, invece, quanto più smisuratamente vede crescere la propria ricchezza materiale, tanto più totalitariamente viene sospinta da ossessivi imperativi di crescita ulteriore. Nessuna crescita

ulteriore, poi, diffonde benessere, e neppure risolve le vere necessità materiali, ma rende necessario il superfluo, complica l'organizzazione dell'esistenza, inquina in molteplici sensi l'ambiente. Ogni crescita economica, infine, esaspera la competizione per la crescita economica, e la rende sempre più necessaria per sopravvivere allo sviluppo. Tutto ciò è davvero insensato, e il fatto che appaia normale è indice soltanto della demenza collettiva che questa società produce.


Gli uomini che dirigevano gli antichissimi templi e palazzi mesopotamici, siriani ed egizi, sfruttavano il lavoro altrui per promuovere l'arte, le conoscenze matematiche e astronomiche, le grandi narrazioni teologiche e cosmogoniche. L'antico greco e l'antico romano sfruttavano il lavoro altrui per realizzare la loro persona nella creazione e nel consolidamento della comunità politica. Il clero medioevale beneficiava dello sfruttamento per dedicarsi alla spiritualità religiose, etica e speculativa. La borghesia moderna cercava il profitto per sottrarre definitivamente le proprie famiglie al bisogno economico, per costituirsi uno spazio privato protetto dalle ansie competitive, e per esprimere un'etica professionale.


Gli odierni profittatori del meccanismo economico, con la loro accumulazione di ricchezza non soltanto spingono i ceti subalterni verso condizioni di crescente precarietà, incertezza e affanno economico, ma riducono loro stessi alla loro più elementare pulsionalità competitiva, alla più volgare attenzione alla sola utilità. Sulle loro montagne di denaro non vive che il nulla spirituale. E l'intera società massimizza la produzione e il consumo non per sottrarsi al peso delle occupazioni puramente economiche, ma, paradossalmente, per non darsi più altri traguardi che non siano traguardi di produzione e consumo. In questa maniera la ricerca del profitto distrugge tutte le dimensioni della vita (etiche, simboliche, estetiche) che non siano economiche: si vive soltanto per produrre e consumare.

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