Se torna la guerra

Se torna la guerra

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Se risvegliarsi da un bel sogno è sempre triste, su di noi l’effetto è stato traumatico.
Il primo è stato il Regno Unito, a gennaio: “I cittadini britannici siano pronti ad una futura guerra con la Russia”. È stato poi il turno della Francia, della Polonia, e con vari toni e declinazioni di tutto l’Occidente. La guerra sta tornando, ci troviamo in uno stato “prebellico”, dobbiamo essere pronti alla guerra (e non lo siamo). La popolazione, scioccata, si aggrappa al passato, alla tranquillità che fu, alcuni accusano i leader di cercare la guerra.

Toni, parole e frasi che pensavamo consegnate alla Storia stanno riemergendo, in un crescendo di cui però l’Occidente è solo l’ultimo tassello: da anni ormai l’intero mondo si prepara allo scontro, quando non lo fa già direttamente. È finita, in poche parole, l’eccezione europea, la bolla in cui abbiamo vissuto per trent’anni, ignorando la Jugoslavia che si dissolveva, il Nord Africa che prendeva fuoco, il Medio Oriente e poi la stessa Ucraina dilaniati dalla guerra e dalle stragi. Ovunque, Stati insoddisfatti dagli equilibri internazionali post-guerra fredda cercano di ridefinirli a proprio vantaggio con la forza o la minaccia delle armi. Ridefinire gli equilibri non è un’operazione neutra, è un’operazione contro chi, noi, su quegli equilibri ha creato il proprio benessere, la propria democrazia, una visione del mondo per cui lottare.

È un mondo in cui gli Stati Uniti, supposti manovratori, hanno sempre più difficoltà a dirigere l’orchestra: ogni musicista riscopre l’autonomia ed intona la propria musica, in una cacofonia devastante. Anche alleati di lunga data, come Israele, si muovono ormai in proprio, anzi in spregio, delle indicazioni di Washington. Certo, gli Stati Uniti danno ancora le carte, ma con una voce sempre più flebile.

E allora cosa ne sarà di noi, che della protezione americana abbiamo fatto il nostro scudo per settant’anni? Settant’anni di pace e di sviluppo che ci han permesso di creare welfare, ospedali, scuole spendendo poco o nulla in difesa. Un ombrello, quello americano, sempre meno certo, tanto più con Donald Trump alle porte.

La soluzione pare ormai chiara: si vis pacem para bellum, nessuno attacca l’attore più forte. E allora la triste ma necessaria conclusione è impegnarsi a ricostruire, passo dopo passo, le forze armate che alcuni speravano di aver consegnato alla Storia. Non si tratta qui di riscoprire velleitarismi, imperialismi o corse alle armi, si tratta di poter resistere ad un vento sempre più violento. Da una posizione di sicurezza minima si potrà tentare di ricostruire, come Europa, un equilibrio di qualche tipo, precario come tutti gli equilibri ma vagamente rassicurante.

Chiaramente, immaginare e costruire la pace resta comunque necessario, anche oggi, ma difficilmente si ha la pace se il rivale è convinto di poter vincere con le armi. Ecco perché reggere lo scontro è necessario, mantenendo però vie, canali di comunicazione aperte, per cogliere possibili opportunità di distensione. Centrale rimane una maggiore conoscenza dell’Altro, del diverso, per poterne intuire le idee, le motivazioni, le opportunità e i pericoli.

Abbiamo paura, la nostra generazione ha paura, ed ha ragione ad averla: dopo il 2008, dopo il Covid, dopo il disastro ambientale, ora torna la guerra. Pregando di non doverla combattere, toccherà a noi tornare a confrontarci con un mondo che alla guerra non ha mai rinunciato, toccherà a noi svegliarci da un sogno durato settant’anni.

Indro Furlanetto

Studente del corso triennale in Studi Internazionali. Appassionato di relazioni internazionali, geopolitica e storia.

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