PARASITE HA VINTO PER SBAGLIO
www.luniversitario.itDislcaimer. Tutti i dati citati nell’articolo sono reperibili ai siti ourworldindata.org e gapminder.org
Nel libro “Factfulness”, Hans Rosling riporta una mole impressionante di dati sui più diversi aspetti dell’umanità – dal tasso di mortalità infantile all’alfabetizzazione, dalla disponibilità di acqua potabile al numero di chitarre pro capite, dal reddito giornaliero al rischio di incidenti atomici, ecc. – con il chiaro scopo di mostrare che il mondo è troppo complesso perché una sola narrazione catastrofista possa esaurirlo e che, per di più, non abbiamo mai vissuto in un epoca migliore di questa. Sempre nello stesso libro, viene citata una serie di bias cognitivi attraverso cui siamo portati a filtrare la realtà. Uno dei più pervasivi è quello che Rosling chiama “istinto drammatico per il divario”, quella tendenza a dividere il mondo in due e a contrapporre le parti risultanti in una grande narrazione drammatica e apocalittica: buoni contro cattivi, ricchi contro poveri, bene contro male, ecc.. Ovviamente questa immagine dicotomica del mondo è alimentata dai mezzi di informazione: non è raro che in un articolo di giornale o durante un TG si sentano le magiche parole “il crescente divario”, quando nel mondo i divari fanno tutto fuorché crescere (la maggioranza degli individui sul pianeta vive nel mezzo, non ai poli di una disuguaglianza, con 1 miliardo nella parte più ricca, 1 miliardo in quella più povera e ben 5 miliardi nel mezzo!)
Starete pensando che sbaglio, perché siete sicuramente convinti che i termini migliore e grave si escludono a vicenda, ma non è così. Il fatto che viviamo in un mondo in cui molte situazioni sono gravi (riscaldamento globale, diritti umani in paesi come la Cina e la Russia, ascesa dei populismi ecc.) non significa che questo non possa anche essere il migliore mondo della storia dell’Umanità. E viceversa, il fatto che questo sia il migliore mondo fino ad ora non significa che sia tutto perfetto. Questo giudizio, infatti, è in termini relativi, rispetto al passato, non in termini assoluti; ignorare che ci sia un miglioramento è tanto idiota quanto ignorare che ci siano situazioni gravi.
Eppure, nonostante tutto, c’è una tendenza inarrestabile verso l’indignazione verso un mondo che abbiamo costruito apposta proprio per indignarci con esso, e molto spesso quella rabbia finisce per somigliare al sentimento del fanatico religioso difronte al blasfemo che insulta il suo dio (come se dio non si sapesse difendere da solo, poi). L’indignazione tuttavia è incredibilmente improduttiva: serve solo a farci sentire dalla parte giusta della barricata, senza fare nulla per abbatterla e anzi radicalizza quelli che non la pensano come noi nelle loro posizioni. È un comportamento autoreferenziale, autocompiaciuto e anche reazionario. È quello che Nietzsche avrebbe definito un nichilismo passivo, che si limita a constatare la disfatta del mondo senza muovere un dito per fare qualcosa, quasi crogiolandosi nella critica fine a sé stessa, nella beata convinzione che indignarsi su Instagram basti per sentirci in pace con noi stessi e pensare di aver fatto abbastanza. Molte persone credono che l’arte debba assolvere a questo compito, invocandone una funzione “realista” e concependola come uno specchio della società per denunciarne gli aspetti invariabilmente peggiori. Questa immagine dell’arte è duplicemente sbagliata: prima di tutto perché confonde l’arte con il realismo, in secondo luogo perché confonde il realismo con il disfattismo indignato.
Ma, come diceva Borges, il realismo è solo un episodio abbastanza recente e isolato nella storia della letteratura. L’arte è da sempre, in primo luogo, creazione di miti, non specchio della miseria della società. I grandi capolavori della storia della letteratura non sono opere realiste: La Divina Commedia, Don Chisciotte, l’Iliade e l’Odissea, Moby Dick, i Viaggi di Gulliver sono solo alcuni esempi. L’arte è in questo senso da sempre attività dell’immaginazione, produzione dei codici interpretativi della società e non specchio di codici che già esistono. La grande arte è proprio quella che si rifiuta di reagire al mondo e riesce ad agire in esso, a creare dei modi nuovi di vedere le cose. Ed ecco perché l’immaginazione (facoltà attiva) ha un valore più alto del realismo (facoltà passiva).
A questo punto dobbiamo chiederci: Parasite, fresco di quattro Oscar tra cui Miglior Regia, Miglior Film e Migliore Sceneggiatura Originale, è una critica sociale? Si tratta di un film ideologico? È un’opera che appartiene al filone realista? Oppure riesce a sganciarsi dalla passività che contraddistingue questo genere per scollinare nel territorio dell’immaginazione attiva? Parasite è un film che parla di un mondo che non esiste più, per molteplici ragioni. Iniziamo dalle più semplici: il mondo raccontato da Bong Joon-Ho non esiste, non è un’immagine sensata della realtà. Un divario così marcato tra ricchi e poveri non esiste nella maggior parte del mondo e soprattutto non esiste in Corea del Sud, i cui Gini Index (indice di riferimento per le disuguaglianze nel reddito) sono migliori di paesi europei come la Francia e la Germania. Questo non significa che non ci siano problemi di disuguaglianza nel paese asiatico, ma di sicuro non sono quelli raffigurati nel film. Ad esempio, uno dei problemi più gravi è rappresentato dai tassi di povertà degli anziani; la metà della popolazione nazionale dai 66 anni in su è in condizioni di indigenza economica, nonostante la Corea del Sud sia uno dei paesi con l’aspettativa di vita più alta del mondo (uno studio di Lancet ha previsto che, nel 2030, sarà il primo paese in cui l’aspettativa di vita media per le donne sarà di 90 anni!) e con un sistema sanitario ritenuto uno dei migliori.
Quindi dovremmo cambiare il nostro apprezzamento nei confronti di Parasite in biasimo per non aver raffigurato bene la società che racconta, o per aver mentito sui dati, o aver dato un’immagine falsata della realtà? Nient’affatto: non è richiesto all’arte di essere informativa, né dovremmo aspettarci che lo sia. Ecco perché chi vede in Parasite uno strumento di critica sociale si sbaglia. Almeno se crede che il film sia una critica a una società specifica. L’ambizione dell’arte in generale, e di Bong Joon-Ho in questo caso, è molto più alta: è quella di raccontare una storia paradigmatica, non che colga la sensibilità di un periodo storico ma che la crei dal nulla, e che sia così applicabile a tutte le epoche e a tutte le società. Se Bong Joon-Ho avesse raffigurato un contesto spazio-temporale specifico, la sua opera sarebbe stata troppo relativa e contingente. Staccandosi dal presente, ha raccontato una storia che riesce a essere universale. È questa la differenza tra ideologia e arte: laddove la prima rappresenta la società secondo dei codici istituiti, la seconda rielabora continuamente quei codici attraverso l’invenzione di nuove metafore. Parasite è un grande film proprio perché mente, proprio perché non è un trattato di come sia la disuguaglianza nella società oggi. E così riesce a diventare un archetipo della disuguaglianza di tutte le possibili società, si sgancia dal peso dell’attualismo che la terrebbe rinchiusa nel presente e diventa potenzialmente eterna. L’arte dice la verità solo attraverso la finzione, solo vestendo delle maschere, perché solo in questo modo può elevarsi al di sopra del relativismo dell’epoca in cui viene concepita.
Noi vogliamo archetipi, simboli e concetti universali. Parasite non ha niente a che fare con la realtà perché ha a che fare con la verità. Si stacca dal suo tempo e dal suo contesto e non si lascia definire sulla base di quella che potremmo definire “malattia interpretativa sociologica”, per cui possiamo capire un’opera solo a partire dal contesto in cui è stata scritta. Con la grande arte accade l’esatto contrario: dobbiamo usare l’opera per capire cosa succede intorno a noi e non viceversa, grazie a una sorta di “applicabilità universale”, di trascendenza del contesto relativo in cui è stata concepita.
Per questo Parasite ha vinto gli Oscar meritatamente ma per le ragioni sbagliate. È stato frainteso dalla società radical chic americana che ha scambiato un puro sforzo dell’immaginazione con una critica ideologica, una storia universale con una denuncia contingente e relativa. Abbiamo preferito premiare la politica e l’ideologia al posto dell’arte e dell’immaginazione. Ma l’arte è sempre abbastanza forte da sopravvivere alle ideologie.
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