Lavorate per Facebook gratis. Utenti di tutto il mondo, unitevi!

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Kairobi


di John Thornill  07 febbraio 2018

La statua di Karl Marx a Berlino rimossa nel 2010 per i lavori della metropolitana (Reuters)


Se vivesse oggi, Platone potrebbe benissimo considerare ozio buona parte del lavoro che facciamo e lavoro buona parte dello svago che ci godiamo. Gli amministratori delegati retribuiti in maniera esorbitante, che hanno preso parte agli incontri di Davos e sfrecciano da una parte all'altra del pianeta per discutere delle grandi tematiche all'ordine del giorno, in verità si abbandonano a un vortice senza fine di simposi. Platone, in ogni caso, quasi certamente guarderebbe in tralice tutti coloro che si dilettano di pesca, giardinaggio e cucina, attività che considererebbe lavorative e gravose. 


Così ha sostenuto il filosofo ceco Tomas Sedlacek a una recente conferenza del Financial Times, dove ha affermato di stare lavorando. Penso che la sua affermazione mirasse prevalentemente a essere una sorta di provocazione intellettuale per farci capire in che modo le nostre definizioni di lavoro e di svago dipendano dal contesto culturale più che da leggi sociali immutabili. 


Di sicuro, riuscire a capovolgere alcune delle nostre classificazioni concettuali ci aiuterebbe a risolvere parte del rompicapo della nostra economia digitale. 


Prendiamo in considerazione i social media, per esempio. Forse, gli utenti di Facebook, Instagram, Twitter e YouTube credono semplicemente di condividere con amici e parenti momenti speciali della vita, opinioni argute e prodezze divertenti. Tutte queste attività arricchiscono la nostra esistenza, rendono più profondi i nostri rapporti sociali, e ci offrono svago e tempo libero piacevoli. 

Tuttavia, se consideriamo le cose da un altro punto di vista, quando lanciamo occhiate di sguincio ai nostri telefoni cellulari come tante galline digitali in batteria in verità generiamo insiemi enormi di dati che i programmi di apprendimento delle macchine elaboreranno per rivenderci pubblicità. La genialità di Facebook risiede nel fatto che tutti i suoi utenti – senza esserne consapevoli – lavorano per l'azienda gratis, creandone il prodotto di maggior valore. 



Questo permette a Facebook di pagare ai suoi dipendenti l'equivalente dell'1 per cento appena del valore di mercato dell'azienda, rispetto al 40 per cento di quello che versa Walmart ai suoi. Siamo stati tutti sedotti dai “server sirena”, come li ha definiti Jason Lanier, scrittore e ricercatore di Microsoft. 

Naturalmente, la maggior parte della gente che lavora nella Silicon Valley non vede nulla di sbagliato nel nostro contratto digitale implicito. Hal Varian, capo economista da Google, sostiene che gli utenti ricevono gratis servizi molto popolari e convenienti. Quanto ai pubblicitari, si avvalgono della possibilità di indirizzare in modo economico ed efficace pubblicità al pubblico giusto. Se l'offerta di Google non piace, gli utenti possono passare facilmente ad altri servizi. La concorrenza può generare e ricomprare i propri dati senza problemi. La concorrenza è a un click di distanza soltanto. 

Questa tesi potrebbe reggere se si considerassero i dati degli utenti alla stregua di capitale, creato dalle aziende tecnologiche e di loro proprietà. Un gruppo di esperti di tecnologia e di accademici tra i quali Lanier, però, ha pubblicato uno studio che mette in discussione questa concezione, sostenendo che i dati sono considerati più un prodotto del lavoro che il sottoprodotto di un'attività di svago. 


La data economy si è sviluppata per caso più che di proposito, è inefficiente, ingiusta e improduttiva, e dovrebbe pertanto essere ripensata da capo, sostengono. Secondo questi esperti, inoltre, occorre saper distinguere tra quello che definiscono il modello esistente DaC (Data as Capital) – che tratta i dati come prodotti “di scarico” dei consumi e materia prima per il capitalismo di sorveglianza – e un modello teorico DaL (Data as Labour) che dovrebbe considerare i dati come proprietà degli utenti, creata da loro stessi e che dovrebbero portare benefici a loro in primo luogo. 

Questi studiosi rivolgono un appello a economisti e imprenditori del mercato del lavoro affinché contribuiscano a dare forma a un vero mercato per i dati degli utenti. Tale mercato dovrebbe retribuire la gente per le informazioni che la riguardano, creando nuovi posti di lavoro, alimentando una cultura della “dignità digitale” e incrementando la produttività dell'economia. 

Questa tesi è delineata in “Radical Markets”, un libro di Eric Posner e Glen Weyl di imminente pubblicazione, ferocemente critico nei confronti del “tecno-feudalesimo” e che contiene anche un appello idealistico a condividere più equamente i frutti delle nostre informazioni riservate collettive. «L'attuale modello di proprietà dei dati» dice Weyl «è inefficiente da un'ottica economica». 

Lanier e gli altri autori riconoscono che è semplicistico considerare i modelli DaC e DaL come binari. Ammettono anche che pagare la gente per i dati può essere problematico nel mondo reale.


“L'attuale modello di proprietà dei dati è inefficiente da un'ottica economica”

Glen Weyl , autore di Radical Markets 


Alcuni esperimenti effettuati da Microsoft e altre aziende per ricompensare gli utenti dei dati forniti sono stati sbaragliati subito dai robot. Altrettanto difficile potrebbe rivelarsi l'impresa di convincere un'opinione pubblica scettica che alcuni dei “lavoratori” stacanovisti nel loro modello di data economy sono adolescenti isolati, non integrati nella società, dipendenti in tutto e per tutto dai giochi, anche se gli autori del libro ne illustrano bene il caso. 

Per indirizzare la data economy verso la direzione giusta, ci suggeriscono di irrobustire tre punti di forza in grado di riportare un certo equilibrio. Primo: per stimolare i mercati dei dati reali sono indispensabili maggiore concorrenza e più innovazione. Non si dovrebbe consentire a Big Tech di soffocare le aziende più piccole che muovono i loro primi passi. In verità, potrebbe essere necessario che una delle grandi aziende tecnologiche esca dai ranghi e si faccia promotrice di una nuova data economy, tenuto conto delle sconfortanti economie di scala. 

Secondo: i governi dovrebbero modernizzare e far rispettare una politica basata sulla concorrenza, incoraggiando la portabilità dei dati e la crescita dell'economia DaL. A tale riguardo, dovrebbero tornare utili regimi più severi di regolamentazione, come il General Data Protection Regulation dell'Ue che entrerà in vigore a maggio. 

Infine, noi consumatori dovremmo aprire gli occhi una volta per tutte nei confronti del nostro ruolo di lavoratori digitali e – volendo usare una terminologia marxista – sviluppare «una coscienza di classe». È indispensabile che nascano e si affermino sindacati dei lavoratori dei dati impegnati a combattere per i nostri diritti collettivi. L'approccio storico dei lavoratori allo strapotere del capitale è sempre stato quello di scioperare. Sapremo che il movimento DaL fa sul serio quando sui social media daremo vita a gruppi di picchetti digitali che scandiranno lo slogan: «Niente post senza compenso!»


john.thornhill@ft.com 

(Traduzione di Anna Bissanti, il Sole 24 Ore) 

© 2018, The Financial Times




nota

Non basta. Così come la dialettica marxista sul capitalismo è intrinsecamente capilistica, il "compenso" monetario non cambia, ma solo sposta, il problema, aggiungendone forse un altro.

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