Il pareggio di bilancio in Costituzione rende l’Italia schiava di Bruxelles

Il pareggio di bilancio in Costituzione rende l’Italia schiava di Bruxelles

Salvatore Clemente

di Giuseppe PALMA, 15 febbraio 2017


È il 2 marzo 2012: 25 Stati dell’Ue sottoscrivono il «Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria» (meglio conosciuto come fiscal compact), il quale prevede che gli Stati firmatari si impegnino al perseguimento del pareggio di bilancio. L’Italia, unica tra i 25, provvede addirittura a inserirlo in Costituzione. E lo fa, in seconda votazione (la procedura di revisione costituzionale ebbe inizio già nel 2011), con una maggioranza dei 2/3 dei componenti di Camera e Senato, in modo tale da evitare il referendum popolare confermativo previsto dall’articolo 138 della Costituzione. Ma cos’è il pareggio di bilancio? È l‘obbligo per lo Stato di incassare in misura equivalente a quanto spende, lasciando zero ricchezza ai Cittadini. Se addirittura anche i Trattati europei prevedono la possibilità di indebitamento nella misura del 3% del rapporto defìcit/pil, il vincolo del pareggio di bilancio impone invece zero spesa a deficit. Ma perché questo?


Perché castrarci per i prossimi decenni di qualsiasi politica economica che favorisca cittadini e imprese? La risposta è nel funzionamento della moneta unica: l‘euro è una moneta fiat, cioè creata dal nulla dalla Bce, ma non è destinata ai governi, bensì alle riserve dei mercati dei capitali privati (banche private, assicurazioni). Tutti e 19 gli Stati dell‘eurozona, avendo perso sovranità monetaria, sono quindi costretti ad andarsi a cercare la moneta, e possono farlo solo in tre modi: 

1) andandola a chiedere in prestito ai mercati dei capitali privati, ai quali va restituita con gli interessi (per cui avere un bilancio statale in pareggio favorisce l’abbassamento dei tassi d‘interesse sui Titoli di Stato collocati sul mercato primario): 

2) estorcendola a cittadini e imprese attraverso l‘aumento delle tasse, i tagli selvaggi alle voci di spesa pubblica più sensibili (come ad esempio sanità, pensioni, giustizia, sicurezza e istruzione) e l‘inasprimento dei sistemi di accertamento fiscale che trasformano uno Stato democratico in uno Stato giacobino di polizia tributaria; 

3) favorendo l‘ingresso di capitali esteri attraverso l’aumento delle esportazioni, ma, non potendo gli aggiustamenti in termini di competitività avvenire sul cambio (essendo l’euro un accordo di cambi fissi), avvengono sul lavoro attraverso il taglio dei salari e la contrazione delle garanzie contrattuali e di legge in favore del lavoratore.


Capite adesso perché occorre fare pareggio di bilancio? Del resto, ad ammetterlo è addirittura l‘attuale ministro della giustizia Andrea Orlando, del partito democratico, il quale durante la Versiliana il 3 settembre dello scorso anno (cioè appena quattro mesi fa) ammise spudoratamente che: «Noi stiamo vivendo un enorme conflitto tra democrazia ed economia. Oggi, sostanzialmente, i poteri sovranazionali sono in grado di bypassare completamente le democrazie nazionali (…). Faccio un esempio: la modifica della Costituzione per quanto riguarda il tema dell‘obbligo del pareggio di bilancio, non fu il frutto di una discussione nel Paese; fu il frutto del fatto che, a un certo punto, la banca centrale europea fece capire: «o mettete questa clausola nella vostra Costituzione, o altrimenti chiudiamo i rubinetti». Io devo dire che è una delle scelte di cui mi vergogno di più (…)». Occorre aggiungere altro? Credo proprio di no. Il pareggio di bilancio serve unicamente alle finalità criminali dell’euro, a scapito dei diritti fondamentali e della democrazia costituzionale.


L’euro non è solo una moneta, ma uno strumento di governo a servizio del capitale internazionale che scarica violentemente le sue finalità sui principi inderogabili cui trova fondamento la Costituzione primigenia.


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