Dall’euro si esce per decreto e a mercati chiusi. Il referendum sarebbe un suicidio! Vi spiego il perché la rata del mutuo non è un problema

Dall’euro si esce per decreto e a mercati chiusi. Il referendum sarebbe un suicidio! Vi spiego il perché la rata del mutuo non è un problema

Salvatore Clemente

di Giuseppe PALMA, 25 giugno 2016


Se da un lato i Trattati europei prevedono espressamente la facoltà per ciascuno Stato membro di recedere dall’Unione Europea – articolo 50 del TUE, Trattato sull’Unione Europea – ponendo come solo obbligo il rispetto delle disposizioni costituzionali e non anche – ad esempio – la predisposizione di un atto motivato (questo vuol dire che il recesso può avvenire senza che ricorra un legittimo o giustificato motivo di autotutela della sovranità e dell’ordine pubblico interno propri di un determinato Stato membro), dall’altro l’uscita dall’euro presenta certamente maggiori problemi (ma solo in apparenza).


I Trattati, infatti, non sono così chiari come nel caso di recesso dall’Unione.


Se da un lato gli artt. 139 e 140 del Tfue – Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, prevedendo la distinzione tra Stati “la cui moneta è l’euro” e Stati in deroga, non escludono la possibilità per ciascuno degli Stati “la cui moneta è l’euro” di tornare allo status di Stato in deroga (in tal caso le predette norme andrebbero lette in parallelo con la Convenzione di Vienna), dall’altro il recesso dalla moneta unica può avvenire attraverso un atto di imperio da parte del Governo italiano, cioè un decreto legge emanato dall’esecutivo – che il Parlamento dovrebbe convertire in legge secondo il dettato costituzionale entro sessanta giorni – attraverso il quale si preveda il ritorno ad una moneta nazionale (da convertire 1:1 con l’euro) provvedendo altresì alla parallela e indispensabile conversione del nostro debito pubblico (il cui ammontare è per circa il 96% ancora sotto giurisdizione italiana) in nuova moneta nazionale (alla quale il Governo dovrebbe ovviamente attribuire valore intrinseco, cioè fissare l’imposizione fiscale in nuova moneta nazionale).


Il tutto, ovviamente, dovrebbe essere accompagnato dal necessario superamento dello scellerato divorzio avvenuto nel 1981 tra Banca d’Italia e Tesoro (per cui la Banca d’Italia dovrebbe tornare ad esercitare l’importantissima ed irrinunciabile funzione di prestatrice di ultima istanza) e dalla nazionalizzazione delle banche, le quali, invece di perseguire lo scopo della speculazione, dovrebbero tornare ad esercitare la funzione per la quale furono costituite, cioè quella di finanziare cittadini e imprese nell’interesse nazionale e nel perseguimento delle finalità costituzionali (lavoro, uguaglianza sostanziale, risparmio, credito e libera iniziativa economica)!


Del resto, nel caso si decidesse di far leva sul combinato disposto rappresentato dagli artt. 139 e 140 del Tfue e dalla Convenzione di Vienna, uscire dall’euro restando nell’Ue (vestendo quindi lo status di Stato in deroga) non risolverebbe affatto i nostri problemi in quanto saremmo comunque legati ai vincoli esterni, salvo si decidesse di non rispettarli più, ma in tal caso saremmo comunque esposti a procedure di infrazione da parte di Bruxelles.


Ciò detto, al fine di poter porre in essere tutte le misure necessarie allo scopo di risolvere le gravissime problematiche economiche e occupazionali cui versa il nostro Paese, la strada consigliata sarebbe quella dell’uscita dall’UE facendo leva sull’art. 50 del Tue e della parallela uscita dall’euro per decreto, con necessaria conversione del debito pubblico in nuova moneta nazionale e applicando – nell’interesse nazionale e secondo quanto già previsto dal codice civile – il principio della Lex Monetae.


A tal proposito si precisa che l’eventuale ritorno ad una moneta nazionale non significa tornare alla vecchia lira come l’abbiamo conosciuta, bensì ad una nuova moneta (da convertire 1:1 con l’euro e il cui cambio sarebbe stabilito di volta in volta dal mercato) che può chiamarsi in qualsiasi modo: nuova lira, fiorino, scudo, ducato, grano, eccetera.


A questo punto, una delle argomentazioni che gli euristi contrappongono all’uscita dall’euro è quello che gli italiani si vedrebbero impennare la rata del mutuo. Una sciocchezza che non ha senso.


E vi spiego il perché grazie al principio della Lex Monetae (combinato disposto degli artt. 1277, 1278 e 1281 co. I del codice civile).


Ma leggiamo l’art. 1277 co. I e II c.c.


“I debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale. Se la somma dovuta era determinata in una moneta che non ha più corso legale al tempo del pagamento, questo deve farsi in moneta legale ragguagliata per valore alla prima”.


Questo articolo si applicherebbe qualora deflagrasse l’intera Eurozona con la conseguenza che non vi sarebbe più la moneta unica e quindi questa non avrebbe più corso legale in nessuno degli Stati che vi avevano aderito.


In tal caso i pagamenti andrebbero fatti in moneta legale (ad esempio la nuova Lira) ragguagliata per valore all’Euro, e il rapporto di cambio sarebbe uno a uno (il cosiddetto changeover, cioè il cambio “in uscita” e non, come sostengono alcuni sprovveduti, il cambio “in entrata”).


Ciò detto, qualora vi fosse una deflagrazione di tutta l’Eurozona (e quindi la fine dell’Euro), per noi non vi sarebbero eccessivi problemi perché troverebbe applicazione la norma di cui all’art.1277 c.c.!


I problemi sorgerebbero invece – quantomeno in apparenza – qualora ad uscire fosse l’Italia con parallela sopravvivenza dell’Eurozona e quindi della moneta unica.


A tal proposito leggiamo l’art. 1278 c.c. “Se la somma dovuta è determinata in una moneta non avente corso legale nello Stato, il debitore ha facoltà di pagare in moneta legale, al corso del cambio nel giorno della scadenza e nel luogo stabilito per il pagamento”.


In tal caso il debitore potrebbe optare di pagare in Euro (e ciò sarebbe una iattura) oppure in moneta legale (la nuova Lira), con il rischio della svalutazione di questa nuova moneta (svalutazione che in questo preciso caso rappresenterebbe un’ulteriore iattura).


Per dirla con parole povere, ecco un esempio pratico: chi ha acceso un mutuo a tasso variabile, in caso di uscita dell’Italia dall’Euro potrebbe scegliere di pagare in Euro (che però non avrebbe più corso legale in Italia e quindi sarebbe difficile da procurare), oppure potrebbe optare di pagare in nuova moneta nazionale che tuttavia sarebbe soggetta a svalutazione, con conseguenze molto pesanti sull’ammontare delle rate di mutuo.


Ed è proprio qui che trova applicazione un altro dei principi cardine del nostro ordinamento giuridico, ossia lex specialis derogat generali (la norma speciale deroga quella generale), richiamato espressamente in merito a tale argomento dall’art. 1281 co. I c.c.: “Le norme che precedono si osservano in quanto non siano in contrasto con i principi derivanti da leggi speciali”.


Il che vuol dire che il Governo, con il medesimo decreto di uscita, deve prevedere che i rapporti di debito e credito espressi in euro siano regolati in nuova moneta nazionale al cambio previsto alla data del changeover (1:1), e non a quella della scadenza del debito/credito (che ovviamente incorporerebbe la svalutazione della nuova lira).


Uscire dall’euro è dunque possibile. Basta Volerlo.


E non mi si parli di referendum.


Se qualche forza politica italiana proponesse seriamente un referendum consultivo sull’euro (che al momento non è giuridicamente praticabile), dovremmo sostenere una campagna elettorale sotto il ricatto violento dei mercati, che spingerebbe i cittadini a votare (sotto costrizione) per la permanenza nell’eurozona.


Non credo proprio che gli italiani sarebbero disposti a sopportare un mese di campagna elettorale con lo spread alle stelle e con prelievi limitati agli sportelli bancari.


Per di più, dal punto di vista strettamente giuridico, la nostra Costituzione vieta espressamente referendum abrogativi sui Trattati internazionali, oltre a non prevedere alcuna forma di referendum consultivo a livello nazionale.

[...]

Ciò detto, dall’euro si può uscire solo per decreto da emanarsi a mercati chiusi (preferibilmente il venerdì sera, così il Governo avrebbe due giorni per porre in essere alcune misure necessarie nell’interesse nazionale prima dell’apertura dei mercati il lunedì mattina). Punto.


Chi afferma il contrario non sa che cosa dice.


Report Page