American Gods

American Gods

Neil Gaiman

Era quasi sul punto di rinunciare, quando in cima a una collina vide il cancello con il cartello dipinto a mano. Come gli era stato detto c’era scritto soltanto: FRASSINO.
Si fermò, scese dalla Ford Explorer e slegò il filo di ferro che teneva chiuso il cancello. Poi tornò in macchina e lo superò.

Era come cucinare una rana, pensò. La metti nell’acqua e alzi la fiamma. Quando la rana s’accorge che c’è qualche cosa che non va è già cotta. Il mondo in cui lavorava era troppo strano. Non c’era terreno solido sotto i piedi, e l’acqua bolliva sempre violentemente in pentola. Quando era stato trasferito all’Agenzia sembrava tutto semplice, mentre adesso era tutto… non complicato, decise, bizzarro, sostanzialmente. Alle due di notte era andato nell’ufficio del signor World a ricevere gli ordini.

«Hai capito?» chiese il signor World porgendogli un coltello in un fodero di pelle scura. «Tagliami un ramo. Non è necessario che sia più lungo di cinquanta, sessanta centimetri.»
«Affermativo» disse lui. E poi: «Perché devo farlo, signore?».
«Perché te lo ordino» rispose piattamente il signor World.
«Trova l’albero. Esegui il lavoro. Raggiungimi a Chattanooga. Non perdere tempo.»
«E dello stronzo che ne facciamo?»

«Shadow? Se lo vedi evitalo. Non toccarlo. Non perdere tempo nemmeno a dargli una lezione. Non voglio che diventi un martire. Nello schema di gioco attuale non c’è posto per i martiri.» Sorrise, il solito sorriso sfregiato. Il signor World si divertiva con niente. Town lo aveva notato più di una volta. Lo aveva divertito interpretare la parte dell’autista in Kansas, dopotutto.
«Senta…»
«Niente martiri, Town.»

Town aveva annuito e, preso il coltello, aveva ingoiato la rabbia che gli montava dentro.
L’odio che Town provava per Shadow era ormai diventato parte di lui. Prima di addormentarsi vedeva la sua faccia solenne, il suo sorriso che non era proprio un sorriso, quel modo che Shadow aveva di sorridere senza sorridere e che a lui faceva venire la voglia di tirargli un pugno nella pancia, e anche mentre si addormentava sentiva di stringere le mascelle, le tempie che pulsavano, la gola che bruciava.

Percorse il prato, superò una fattoria abbandonata. Oltre il dosso vide l’albero. Parcheggiò e spense il motore. L’orologio del cruscotto segnava le sei e trentotto minuti. Lasciò le chiavi nel quadro e si avvicinò all’albero.
Era un grande albero. Le sue proporzioni sfuggivano a ogni scala di valori: Town non avrebbe saputo dire se era alto tre o venti metri. Aveva una corteccia grigia e levigata come una sciarpa di seta.

Al tronco era legato un uomo nudo, poco sollevato da terra, sostenuto da un reticolo di funi, e ai piedi dell’albero c’era qualcosa avvolto in un lenzuolo. Passandogli accanto Town spostò il lenzuolo con un piede e capì di cosa si trattava. La parte devastata della faccia di Wednesday lo guardò.

Town raggiunse l’albero, gli fece un giro intorno, allontanandosi dagli occhi chiusi della fattoria, poi abbassò la cerniera dei pantaloni e pisciò contro il grande tronco. Tirò su la cerniera. Ritornò verso la fattoria, trovò una scala a pioli allungabile, la portò vicino all’albero. Dopo averla appoggiata con cura al tronco si arrampicò.

Shadow era inerte, completamente abbandonato alle corde. Town si chiese se fosse vivo: il petto non si alzava e non si abbassava. Morto o quasi morto, non era importante.
«Ciao, pezzo di merda» gli disse a voce alta. Shadow non si mosse.
Town arrivò in cima alla scala e tirò fuori il coltello. Trovò un rametto che sembrava corrispondere alle richieste del signor World e cominciò a tagliarlo, poi finì di staccarlo spezzandolo con le mani. Era lungo circa sessanta centimetri.

Ripose il coltello nel fodero e cominciò a scendere. Quando si trovò proprio all’altezza di Shadow si fermò. «Dio come ti odio» disse. Gli sarebbe tanto piaciuto poter tirar fuori la pistola e sparargli, ma sapeva di non poterlo fare. Allora fece un movimento nell’aria con il bastone, come per colpire l’uomo appeso, un gesto istintivo che esprimeva tutta la sua frustrazione e la sua rabbia. Immaginò di avere in mano una lancia e di conficcargliela in un fianco.

«Andiamo» disse a voce alta. «È ora di tornare.» Poi pensò:
primo sintomo di pazzia, quando si parla da soli.
Fece ancora qualche gradino e saltò a terra con un balzo. Guardando il bastone che stringeva in mano si sentì come un ragazzino che gioca fingendo di avere una spada, o una lancia.
Avrei potuto tagliare un ramo da un albero qualsiasi,
pensò.
Non doveva per forza essere questo. Chi cazzo se ne sarebbe accorto?
Poi pensò:
il signor World se ne sarebbe accorto.

Riportò la scala alla fattoria e con la coda dell’occhio ebbe l’impressione di vedere qualcosa muoversi. Guardò dalla finestra: vide una stanza buia piena di mobili rotti, con l’intonaco cadente, e per un momento immaginò, come in sogno, di vedere tre donne sedute sul divano, al buio.

Una di loro stava lavorando a maglia. Una fissava proprio lui. Una sembrava addormentata. La donna che lo stava fissando gli sorrise, un sorriso enorme che sembrava tagliare la sua faccia in due, un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Poi alzò un dito, lo avvicinò al collo, lo appoggiò e lo fece scorrere delicatamente fino al lato opposto.

Questo aveva creduto di vedere nella stanza deserta che a una seconda occhiata sembrava contenere invece soltanto mobili rovinati e un pavimento coperto di polvere e sudiciume secco. Lì dentro non c’era nessuno.
Si sfregò gli occhi.
Tornò alla Ford Explorer e salì. Gettò il bastone sul sedile rivestito di pelle bianca accanto al suo e mise in moto. L’orologio sul cruscotto segnava le sei e trentasette. Town si accigliò e controllò l’orologio digitale da polso: le tredici e cinquantotto.

Fantastico,
pensò.
O
sono
stato su quell’albero per otto ore oppure ho fatto un viaggio di un minuto all’indietro nel tempo.
Pensò questo, ma credendo in realtà che per qualche strana coincidenza i due orologi avessero entrambi smesso di funzionare.
Sull’albero, il corpo di Shadow cominciò a sanguinare. Dalla ferita nel fianco sgorgava sangue denso e scuro come melassa.

La cima di Lookout Mountain era coperta di nuvole.

Easter sedeva a una certa distanza dalla folla alle pendici della montagna e osservava l’alba illuminare le montagne a oriente. Aveva una catenella di nontiscordardime tatuati sul polso sinistro e li accarezzava distrattamente con il pollice della mano destra.

Un’altra notte era finita e non era successo niente. Continuavano ad arrivare, da soli o a coppie. La notte precedente aveva portato parecchie creature dal Sudovest, compresi due ragazzini grandi come un melo, e qualcosa a cui lei aveva dato soltanto un’occhiata ma che le era sembrata una testa disincarnata grande come un Maggiolino Volkswagen. Erano spariti negli alberi ai piedi della montagna.

Nessuno li disturbava. Nessuno dal mondo esterno sembrava notare la loro presenza: immaginava i turisti di Rock City che attraverso il binocolo da un quarto di dollaro fissavano quel caotico accampamento di cose e persone ai piedi della montagna senza vedere altro che alberi, arbusti e rocce.

Sentì l’odore di fumo e pancetta bruciata portati dal vento freddo dell’alba. Qualcuno in fondo all’accampamento cominciò a suonare l’armonica e la cosa la fece sorridere e rabbrividire. Nello zaino aveva un libro tascabile e aspettava che in cielo ci fosse abbastanza luce per poter leggere.
Appena sotto le nuvole vide due puntini: uno piccolo e uno un po’ più grande. Qualche goccia di pioggia le sfiorò il viso nel vento del mattino.

Una ragazza scalza sbucò dall’accampamento e venne verso di lei. Vicino a un albero si fermò, e raccolte le gonne si accovacciò. Quand’ebbe finito, Easter la chiamò.
La ragazza si avvicinò.
«Buongiorno, signora» disse. «La battaglia comincerà tra poco.»
Si sfiorò le labbra scarlatte con la lingua rosea. Portava sulla spalla un’ala di corvo nera legata a una cinghia di cuoio e una zampa di corvo appesa a una catena intorno al collo. Sulle braccia aveva tatuati ghirigori e nodi intricati.

«Come lo sai?»
La ragazza sorrise. «Sono Macha, delle Morrigan. Quando scoppia la guerra la sento nell’aria. Sono una dea della guerra e dico che oggi scorrerà il sangue.»
«Oh» disse Easter. «Bene, eccoci qua.» Stava osservando il puntino più piccolo che rotolava giù dal cielo come una pietra.

«Combatteremo e li uccideremo, a uno a uno» riprese la ragazza. «E prenderemo le loro teste come trofei e i corvi mangeranno i loro occhi e i cadaveri.» Il puntolino era diventato un uccello con le ali spiegate che volava sui venti tempestosi del mattino.
Easter piegò la testa. «È un sapere segreto di dea?» chiese. «Questa sicurezza su chi saranno i vincitori? Su chi prenderà le teste come trofeo?»

«No» rispose la ragazza. «Sento l’odore della battaglia, nient’altro. Comunque vinceremo, non è vero? Dobbiamo vincere. Ho visto quello che hanno fatto al Padre Universale. O loro o noi.»
«Già» disse Easter. «Immagino che sia così.»

La ragazza sorrise ancora nella luce fioca e ritornò verso il campo. Easter posò una mano per terra e toccò un germoglio verde che spuntava come una piccola lama. Il germoglio cominciò subito a crescere e ad aprirsi, con un movimento a spirale, trasformandosi, fino a quando sotto la mano ci fu la verde corolla di un tulipano. Con il sole alto il fiore si sarebbe aperto.
Easter guardò il falco. «Posso fare qualcosa per te?»

Il falco volava qualche metro sopra la sua testa, lentamente, poi planò per andare a posarsi vicino a lei. La guardò con i suoi occhi folli.
«Ciao, bellezza» gli disse Easter. «Qual è il tuo vero aspetto?»
Il falco zampettò verso di lei con aria incerta e non era più un falco, ma un giovane. La guardò, poi abbassò gli occhi. «Tu?» disse. Guardava ovunque, l’erba, il cielo, gli arbusti, ma non lei.
«Io» disse lei. «Che cosa posso fare per te?»

«Tu.» Il ragazzo si interruppe. Sembrava sforzarsi di organizzare i pensieri, la sua faccia era attraversata dalle espressioni più strane.
Ha passato troppo tempo come un uccello,
pensò lei.
Ha dimenticato come ci si comporta.
Aspettò pazientemente e alla fine lui disse: «Verresti con me?».
«Magari. Dove vorresti portarmi?»
«L’uomo sull’albero. Ha bisogno di te. Un fantasma l’ha colpito nel fianco. Il sangue è uscito, poi si è fermato. Credo che sia morto.»

«C’è in corso una guerra. Non posso andarmene a spasso.»
Il ragazzo nudo non disse niente, si spostò da un piede all’altro come se fosse incerto su dove appoggiare il peso, come se fosse abituato a stare sospeso nell’aria o appollaiato su un ramo ondeggiante, non con i piedi sulla solida terra. Poi disse: «Se lui se n’è andato per sempre, è tutto finito».
«Ma la battaglia…»

«Se lui è spacciato, l’esito della battaglia non ha più importanza.» Il giovane aveva tutta l’aria di aver bisogno di una coperta, di una tazza di caffè molto zuccherato e di qualcuno che lo portasse da qualche parte dove poter tremare e balbettare fino a quando non avesse ritrovato il senno. Teneva le braccia lungo i fianchi, rigide.
«Dov’è? Vicino?»
Il ragazzo fissò il tulipano e scosse la testa. «Molto lontano.»

«Be’» disse lei. «Qui hanno bisogno di me. Non posso andarmene così. E poi come pensi che potrei andarci? Non so volare come te.»
«No» rispose Horus. «Non puoi volare.» Poi guardò in alto con serietà e indicò l’altro punto che usciva dalle nubi sempre più nere e girava in tondo diventando sempre più grande. «Lui sì.»

Dopo altre ore inutili al volante Town odiava il sistema satellitare almeno quanto odiava Shadow. Non c’era passione nel suo odio, però. Aveva creduto che trovare la strada fino alla fattoria, fino al grande frassino argenteo, fosse un’impresa difficile, ma trovare la strada per tornare indietro si stava rivelando molto peggio. Indipendentemente dai sentieri che prendeva, dalla direzione in cui viaggiava lungo le strette strade di campagna — le tortuose strade secondarie della Virginia che dovevano essere nate, ne era sicuro, come sentieri per i cervi e le vacche — finiva sempre per ripassare di nuovo davanti alla fattoria, davanti al cartello dipinto a mano: FRASSINO.

Assurdo, no? Doveva soltanto fare la strada a ritroso, prendere a sinistra ogni volta che aveva preso a destra nel venire, e a destra ogni volta che aveva preso a sinistra.
Solo che l’ultima volta aveva fatto esattamente così e adesso rieccolo davanti alla fattoria. In cielo si stavano addensando nubi scure che annunciavano il temporale e benché fosse mattina faceva già buio come di notte; lo aspettava un lungo viaggio, di quel passo non sarebbe mai arrivato a Chattanooga entro il pomeriggio.

Il cellulare gli dava solo il messaggio Ricerca di rete. La cartina nel cassetto del cruscotto riportava le strade principali, Interstate e autostrade vere e proprie, ma sembrava non considerare altro. E non c’era in giro un’anima a cui chiedere. Le case erano molto lontane dalle strade, e sembravano tutte disabitate. Oltretutto la spia del carburante si stava spostando verso la riserva. Sentì il rombo lontano di un tuono e un’isolata goccia di pioggia cadde pesante sul parabrezza.

Perciò quando vide la donna che camminava lungo il ciglio della strada, Town sorrise involontariamente. «Grazie a dio» esclamò a voce alta, e le si avvicinò. Abbassò il finestrino. «Signora, mi scusi, credo di essermi perso. Può dirmi come si fa ad arrivare all’autostrada 81 da qui?»

Lei lo guardò e disse: «Sa, non credo di riuscire a spiegarglielo. Però se vuole posso accompagnarla». La donna era pallida, aveva i capelli lunghi e scuri tutti bagnati. «Salga» disse senza esitare Town. «Prima di tutto dobbiamo fare benzina.»
«Grazie» rispose lei. «Avevo proprio bisogno di un passaggio.» Salì. I suoi occhi erano straordinariamente azzurri. «C’è un bastone sul sedile» osservò stupita.

«Lo butti dietro. Dov’è diretta?» chiese. E poi: «Signora, se riesce a farmi arrivare a una pompa di benzina e sulla statale io l’accompagno fin sulla porta di casa».
«Grazie. Ma credo di andare più lontano di lei. Mi basta un passaggio fino alla statale, lì magari trovo un camionista con cui proseguire.» Sorrise, un sorriso deciso, un po’ obliquo. Town ne fu conquistato.

«Signora» le disse, «io sono meglio di qualsiasi camionista.» Sentiva il suo profumo: era inebriante e intenso, un po’ nauseante, come di magnolie o gigli, però non gli dispiaceva.
«Vado in Georgia» disse lei allora. «È molto lontano.»
«Io vado a Chattanooga. La porto più in là possibile.»
«Benissimo» disse lei. «Come si chiama?»

«Mi chiamano Mack» rispose il signor Town. Quando abbordava le donne nei bar a volte a questa dichiarazione faceva seguire la frase: «E quelle che mi conoscono bene mi chiamano Big Mack». In questo caso era meglio aspettare, con un viaggio così lungo davanti c’era tutto il tempo per conoscersi. «E tu come ti chiami?»
«Laura.»
«Bene, Laura, sono sicuro che diventeremo amici.»

Il ragazzo grasso trovò il signor World nella Rainbow Room, una sezione murata del sentiero che aveva incollate sui vetri pellicole di plastica colorate, verdi, rosse e gialle. Camminava impaziente da una finestra all’altra guardando un mondo di volta in volta dorato, rosso, verde. Aveva i capelli color carota, quasi rossi, tagliati a spazzola. Portava un impermeabile Burberry.
Il ragazzo grasso tossì. Il signor World alzò gli occhi.
«Mi scusi. Signor World?»
«Sì. E tutto a posto?»

Il ragazzo grasso aveva la bocca secca. Si leccò le labbra e disse: «Ho preparato tutto. Non ho ancora ricevuto la conferma dagli elicotteri».
«Quando sarà il momento arriveranno.»
«Bene» disse il ragazzo grasso. «Bene.» Rimase lì senza parlare ma con l’aria di non volersi muovere. Aveva un livido sulla fronte.
Dopo qualche istante il signor World disse: «Hai bisogno di qualcosa?».
Una pausa. Il ragazzo deglutì e annuì. «Infatti» disse. «Sì.»
«Preferisci che ne parliamo in privato?»

Il ragazzo annuì ancora.
Il signor World lo accompagnò nel suo centro operativo: un’umida grotta che conteneva il diorama di un gruppo di pixy ubriachi indaffarati a distillare un liquore con l’alambicco. Un cartello diceva ai turisti che era vietato l’ingresso durante i lavori di ristrutturazione. I due sedettero sulle sedie di plastica.
«Che cosa posso fare per te?» chiese il signor World.

«Sì. Okay. Ecco, due cose. Okay. Primo: cosa stiamo aspettando? E secondo: la seconda è più difficile. Senta… abbiamo i fucili. Bene. Abbiamo la potenza di fuoco. Loro… loro hanno delle spade del cazzo, coltelli, martelli e asce di pietra. Qualche cric. Noi abbiamo le bombe
intelligenti.
»
«Che però non useremo» precisò l’altro.
«Lo so. Ce l’ha già detto. Lo so. È fattibile. Però. Senta… da quando ho fatto quel lavoretto alla puttana di Los Angeles, mi sono sentito…»

Si interruppe facendo una smorfia, come se non volesse continuare.
«Ti sei sentito disturbato?»
«Sì. Bella parola. Disturbato. Infatti. Come in un istituto per adolescenti disturbati. Divertente. Sì.»
«E cos’è che ti disturba, esattamente?»
«Be’, noi combattiamo, vinciamo.»
«E questo è fonte di turbamento, per te? Personalmente lo trovo motivo di trionfo e felicità.»

«Sì, però moriranno comunque. Loro sono colombe migratrici, tilacini. Estinti, giusto? Chi se ne frega? Invece così sarà un bagno di sangue.»
Il signor World annuì.

Lo stava ascoltando. Bene. Il ragazzo grasso continuò: «Senta, non sono l’unico a pensarla in questo modo. Ne ho parlato con i ragazzi di Radio Modern che sono per trovare un accordo pacifico; e gli intoccabili sono quasi tutti del parere di lasciare che siano le leggi di mercato a risolvere il problema. Io sono… come dire… la voce della ragione».
«Davvero, lo sei. Sfortunatamente però ti mancano alcune informazioni.» Il sorriso che seguì quella frase era un sorriso sfregiato.

Il ragazzo batté le palpebre. «Signor World?» disse. «Che cosa è successo alle sue labbra?»
World sospirò. «La verità» disse «è che un giorno qualcuno le ha cucite. Tanto tempo fa.»
«Accidenti» disse il ragazzo grasso. «Come una storia di omertà.»
«Vuoi sapere che cosa stiamo aspettando? Perché non abbiamo attaccato la notte scorsa?»
Il ragazzo grasso annuì. Sudava, ma era un sudore freddo.
«Non abbiamo sferrato l’attacco perché sto aspettando un bastone.»
«Un bastone?»

«Esatto. Un bastone. E sai che cosa farò, con quel bastone?»
L’altro scosse la testa. «Okay. Me lo dica. Che cosa farà?»
«Potrei dirtelo» rispose il signor World gravemente, «però poi sarei costretto a ucciderti.» Strizzò l’occhio e la tensione nella stanza si allentò.
Il ragazzo grasso cominciò a ridacchiare, una risata interminabile, nasale. «Okay. Eh eh. Okay. Eh eh. Ho capito. Messaggio ricevuto sul pianeta tecnologico. Forte e chiaro. Nada, niente da fare.»

Il signor World scosse la testa e gli appoggiò una mano sulla spalla. «Ehi» disse, «vuoi saperlo davvero?»
«Sicuro.»
«Bene» disse il signor World, «visto che siamo amici, ecco cosa farò: prenderò il bastone e nel momento esatto in cui si scontreranno lo lancerò sopra gli eserciti. Quando io lo lancerò il bastone si trasformerà in una lancia. E mentre la lancia disegnerà un arco nel cielo proprio sopra la battaglia, io griderò "dedico questa battaglia a Odino".»
«Cosa? Perché?»

«Per il potere» rispose il signor World. Si grattò il mento. «E per il nutrimento. Una combinazione delle due cose. Vedi, l’esito della battaglia non conta. Ciò che importa è il caos, e il massacro.»
«Non capisco.»
«Te lo dimostro. Sarà così» disse. «Attenzione!»

Prese dalla tasca del Burberry un coltello da caccia con l’impugnatura di legno e con un movimento sciolto infilò la lama nella carne molle sotto il mento del ragazzo grasso spingendo verso l’alto, verso il cervello. «Dedico questa morte a Odino» disse, mentre la lama affondava.
Sulla mano gli cadde qualche cosa che non era veramente sangue e dietro gli occhi del ragazzo grasso si sentì un crepitio di scintille. L’odore che si diffuse nell’aria era quello di fili elettrici bruciati.

Il ragazzo grasso contrasse la mano e poi cadde. Aveva sul volto un’espressione stupita e infelice. «Guardalo» disse in tono colloquiale il signor World rivolgendosi all’aria. «Sembra che abbia appena visto una sequenza di zero e di uno trasformarsi in uno stormo di uccelli colorati che prende il volo.»
Non arrivò nessuna replica dal vuoto corridoio di roccia.


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