American Gods

American Gods

Neil Gaiman

C’erano grandi alture rocciose, creste e vette di arenaria, e Shadow cominciò a scalare la più vicina. Aveva il colore dell’avorio antico. Quando si afferrò a un appiglio, sentì che gli si sbriciolava tra le dita.
Sono ossa,
pensò.
Non è roccia. E una torre fatta di vecchie ossa.

Era un sogno e nei sogni non si ha scelta; o non ci sono decisioni da prendere, oppure le decisioni sono state già prese molto prima che il sogno avesse inizio. Shadow continuò ad arrampicarsi. Gli facevano male le mani, le ossa si spezzavano con schiocchi netti frantumandosi sotto i suoi piedi scalzi. Il vento lo strattonava ma lui si strinse alla parete e continuò a scalare la torre.

Era fatta di un unico tipo d’osso, sempre quello, all’infinito, di forma arrotondata. Immaginò che potesse trattarsi di uova di un uccello gigantesco, ma un altro lampo gli raccontò una storia diversa: quelle forme tondeggianti avevano orbite, e denti digrignati in un sorriso senza allegria.
Da chissà dove giungevano i richiami degli uccelli. La pioggia gli bagnava la faccia.

Si trovava a decine di metri da terra, attaccato alla parete di una torre di teschi, mentre fulmini e saette squarciavano il buio sulle ali di quegli uccelli dalle lunghe ombre che volavano in cerchio: animali enormi e neri, simili a condor, con un collare di piume bianche. Erano uccelli grandissimi e sgraziati, spaventosi d’aspetto, e il battito delle loro ali risuonava nella notte con il fragore del tuono.
Volavano in cerchio intorno alla torre.

Devono avere un’apertura alare di almeno sei metri,
pensò Shadow.
Poi il primo uccello si staccò dal gruppo per avventarsi su di lui. Lanciava saette azzurre dalle ali. Shadow si infilò in una fessura tra i teschi, sotto lo sguardo di quelle orbite vuote, tra i sorrisi di quelle dentature d’avorio, ma non si fermò, riprese ad arrampicarsi sulla montagna di teschi, tagliandosi con le schegge d’osso acuminate, in preda a repulsione e terrore, in preda a una grande soggezione.

Un altro uccello gli si lanciò addosso e un artiglio grande come una mano gli si conficcò nel braccio.
Si protese cercando di strappargli una piuma — perché se avesse fatto ritorno alla sua tribù senza la piuma dell’uccello del tuono sarebbe caduto in disgrazia, non sarebbe mai diventato uomo — ma l’uccello del tuono si alzò in volo sfuggendo alla sua presa. Poi si allontanò sospinto dal vento. Shadow riprese a salire.
Devono essere decine di migliaia di teschi,
pensò.

Mille migliaia. E non sono tutti umani.
Raggiunse infine la sommità della montagna mentre i grandi uccelli, gli uccelli del tuono, volavano in cerchio lentamente, navigando sulle raffiche della tempesta con minuscoli aggiustamenti delle ali.
Sentì una voce, la voce dell’uomo-bufalo, che superava l’ululato del vento, gli diceva che quei teschi appartenevano a…

La torre cominciò a sgretolarsi e il più grande degli uccelli, con gli occhi di un bianco-azzurro accecante come il fulmine precipitò su Shadow in un impeto di tuono e lui cadeva, crollava insieme alla torre di teschi…
Stava squillando il telefono. Shadow non sapeva nemmeno che fosse stato ricollegato. Intontito, turbato dal sogno, alzò il ricevitore.
«Ma cosa cazzo fai?» urlò Wednesday, furibondo come non l’aveva mai sentito. «Cosa cazzo credi di fare, porca puttana?»

«Dormivo» rispose Shadow stupidamente.
«A cosa cazzo serve metterti al sicuro in un posto come Lakeside se poi tu sollevi un vespaio che non sfuggirebbe neanche a un cadavere?»
«Ho sognato gli uccelli del tuono… E una torre. Teschi…» Raccontare il sogno gli sembrava di fondamentale importanza.
«Lo so che cosa stavi sognando. Tutti lo sanno. Dio Onnipotente. A cosa cazzo serve nasconderti se poi ti fai pubblicità in questa maniera?»
Shadow non disse niente.

All’altro capo della linea ci fu una pausa di silenzio, poi Wednesday disse: «Sarò lì in mattinata». Sembrava che la rabbia gli fosse passata. «Andiamo a San Francisco. I fiori nei capelli sono opzionali.» E chiuse la comunicazione.

Shadow appoggiò il telefono sul tappeto e rigidamente si tirò su. Erano le sei del mattino e fuori faceva ancora buio. Si alzò dal divano, rabbrividiva. Il vento ululava sul lago gelato. E qualcuno vicino a lui, separato soltanto da una parete, piangeva. Era certamente Marguerite Olsen; i suoi singhiozzi soffocati erano insistenti e spezzavano il cuore.

Shadow andò in bagno, poi in camera da letto, e chiuse la porta per non sentire il pianto della donna. Il vento ululava e gemeva come se anche lui cercasse un bambino perduto.

A gennaio il clima di San Francisco era intempestivamente caldo, così caldo che Shadow aveva il collo sudato. Wednesday indossava un abito blu scuro e un paio d’occhiali dalla montatura dorata che gli davano l’aspetto di un avvocato dell’ambiente dello spettacolo.

Stavano camminando lungo Haight Street. La gente di strada, le prostitute e i perdigiorno che li guardavano passare non agitarono il bicchiere di carta per l’elemosina e non chiesero né offrirono niente.

Wednesday aveva le mascelle contratte, Shadow si era accorto subito che era ancora arrabbiato. Quando la piccola Lincoln nera si era fermata davanti alla casa, quel mattino, non aveva fatto domande. Durante il tragitto fino all’aeroporto nessuno dei due aveva parlato. Scoprire che Wednesday aveva un posto in prima classe e che lui era in classe turistica era stato un sollievo.

Adesso era tardo pomeriggio. Shadow non tornava a San Francisco da quando era bambino, aveva visto la città soltanto nei film e rimase sconcertato nel trovarla così familiare, con le sue case colorate e originali, le colline, così unica e diversa da qualsiasi altro posto.
«È quasi impossibile credere che questa città si trovi nello stesso paese di Lakeside» disse.

Wednesday gli lanciò un’occhiataccia. Poi disse: «Non è così, infatti. San Francisco non si trova nello stesso paese di Lakeside più di quanto New Orleans non si trovi nello stesso paese che ospita New York, o Miami in quello di Minneapolis».
«Ah sì?»
«È fuor di dubbio. Magari condividono alcuni simboli culturali — i soldi, il governo federale, gli svaghi — e ovviamente il paese è lo stesso, ma quel che crea l’illusione che si tratti di un’unica nazione sono i dollari, il
Tonight Show

e i McDonald’s, nient’altro.» Si stavano avvicinando a un parco alla fine della strada. «Sii gentile con la signora che stiamo per incontrare. Ma non troppo.»
«Non preoccuparti.»
Entrarono nell’erba.

Una ragazzina, non poteva avere più di quattordici anni, con i capelli tinti di verde, arancio e rosa, rimase a fissarli mentre le passavano davanti. Sedeva accanto a un cane, un bastardo che per collare e guinzaglio aveva un pezzo di corda. Sembrava più affamata dell’animale. Il bastardo abbaiò allegro e scodinzolò.
Shadow le diede un dollaro. Lei lo guardò come se non lo riconoscesse. «Compra da mangiare al cane» le suggerì. Lei annuì e sorrise.

«Mettiamo le cose in chiaro» disse Wednesday, «devi essere molto cauto con la signora che stiamo per incontrare. Se le prendesse un capriccio per te sarebbe un guaio.»
«È la tua fidanzata?»
«No, nemmeno per tutti i giocattolini di plastica che producono in Cina» rispose Wednesday con garbo. La rabbia sembrava dissipata, o forse era solo stata messa da parte per il futuro. Shadow aveva il sospetto che fosse proprio la rabbia il motore di Wednesday.

Seduta sull’erba sotto un albero c’era una donna che aveva stesa davanti a sé una tovaglia di carta coperta di una gran quantità di contenitori di plastica.
Era… no, non era grassa, tutt’altro, era
formosa,
un’aggettivo che Shadow non aveva mai avuto occasione di usare. I capelli così chiari che sembravano bianchi erano legati in trecce biondo platino come facevano certe star del cinema muto; portava un rossetto cremisi e dimostrava un’età indefinibile tra i venticinque e i cinquant’anni.

Quando la raggiunsero si stava servendo da un piatto di uova in salsa piccante. Alzò gli occhi, appoggiò l’uovo che aveva scelto e si pulì la mano. «Ciao, vecchio impostore» disse a Wednesday con un sorriso, e lui le fece un profondo inchino con baciamano.
«Sei divina» disse.

«E come diavolo dovrei essere?» rispose lei con dolcezza. «Comunque sei un bugiardo. New Orleans è stata un errore: ho messo su almeno quindici chili. Giuro. Ho capito che me ne dovevo andare il giorno in cui ho cominciato a camminare ondeggiando. Adesso, ci crederesti che quando cammino mi si sfregano le cosce?» L’ultima frase era stata rivolta a Shadow che non avendo idea di cosa rispondere arrossì violentemente. La donna rise contenta. «Sta arrossendo! Wednesday, mio caro, mi hai portato un giovanotto che diventa rosso. Che carino da parte tua! Come si chiama?»

«Lui è Shadow» disse Wednesday che sembrava trovare divertente il suo disagio. «Shadow, di’ ciao a Easter.»
Shadow borbottò qualcosa che poteva suonare come un saluto e la donna gli sorrise di nuovo. Gli sembrava di essere abbagliato dalle luci intermittenti che i bracconieri usano per paralizzare i cervi prima di sparare. Dal punto in cui si trovava sentiva il profumo della sua pelle, una miscela di gelsomino, caprifoglio e latte dolce che lo stordiva.

«Allora, come vanno le cose?» chiese Wednesday.
La donna — Easter — rispose con una risata profonda e gioiosa, di gola. Come si faceva a non trovare adorabile una donna che rideva in quel modo? «Va tutto bene. E tu, vecchio lupo?»
«Speravo di poter contare sul tuo aiuto.»
«Perdi il tuo tempo.»
«Prima di liquidarmi prestami ascolto almeno un momento.»
«È inutile. Risparmia il fiato.»

La donna guardò Shadow. «Siediti, prego, e serviti quello che vuoi. Ecco qui un piatto, riempilo per bene. E tutto squisito. Uova, pollo arrosto, pollo al curry, insalata di pollo, e là c’è il lapin — coniglio, in effetti, freddo è delizioso, e in quella ciotola lo stufato di lepre — vuoi che te lo prepari io?» Cominciò a riempirgli un piatto di plastica e glielo porse. Poi guardò Wednesday. «Vuoi mangiare?»
«Ai tuoi ordini, mia cara» rispose lui.

«Tu» disse la donna «sei così pieno di merda che mi stupisco che gli occhi non ti diventino marroni.» Gli passò un piatto vuoto. «Serviti da solo.»
Il sole del pomeriggio alle sue spalle le aveva trasformato i capelli in un’aura color platino. «Shadow» disse addentando con gusto una coscia di pollo. «Che bel nome. Perché ti chiamano così?»

Shadow si passò la lingua sulle labbra secche. «Quand’ero bambino mia madre e io eravamo, cioè lei era, una specie di segretaria e lavorava per varie ambasciate, ci spostavamo da una città all’altra dell’Europa settentrionale. Poi si è ammalata ed è andata in pensione presto, così siamo tornati negli Stati Uniti. Non avevo mai niente da dire agli altri ragazzi, seguivo gli adulti in silenzio come un’ombra. Avevo bisogno di compagnia, credo. Non saprei. Ero un bambino minuto.»

«Sei cresciuto» disse lei.
«Sì. Sono diventato grande.»
La donna si voltò verso Wednesday che si stava servendo senza complimenti da una ciotola di gombo freddo. «È questo il ragazzo che ha messo tutti in agitazione?»
«Hai saputo anche tu?»

«Tengo le orecchie aperte.» Poi, rivolta a Shadow: «Sta’ alla larga dai guai. Ci sono troppe società segrete da queste parti, senza lealtà e senza amore. Commerciali, indipendenti, governative, sono tutte nella stessa barca. Si va da quelle a malapena competenti a quelle terribilmente pericolose. Ehi, vecchio lupo, l’altro giorno ho sentito una barzelletta che ti piacerebbe. Come si fa a sapere che la Cia non era coinvolta nell’assassinio di Kennedy?».
«L’ho già sentita» rispose Wednesday.

«Peccato.» Rivolse di nuovo l’attenzione a Shadow. «Ma gli spioni che hai incontrato tu sono un’altra faccenda. Loro esistono perché tutti pensano che debbano esistere.» Finì il contenuto di un bicchiere di carta, vino bianco, dal colore, e si alzò in piedi. «Shadow è un bel nome. Voglio un mochaccino. Venite con me.»
Si allontanò. «E il cibo?» chiese Wednesday. «Non puoi lasciare tutto qui.»

Lei gli sorrise, indicò la ragazzina seduta accanto al cane e poi fece il gesto di abbracciare Haight Street e il mondo intero. «Lascia che tutti si nutrano» disse, e proseguì seguita dai due uomini.
«Ricordati» disse a Wednesday, «io sono ricca. Me la passo benone. Perché mai ti dovrei aiutare?»
«Perché sei una di noi. Dimenticata e senza amore esattamente come noi. È piuttosto evidente da quale parte dovresti stare.»

Raggiunsero un bar con i tavolini all’aperto, entrarono e presero posto. C’era una cameriera che sfoggiava un anellino al sopracciglio come un segno di casta e, dietro il banco, una donna che faceva i caffè. La cameriera li accolse con un sorriso finto e prese le ordinazioni.

Easter appoggiò la mano affusolata sul dorso di quella grigia e squadrata di Wednesday. «Ti assicuro che me la cavo. Durante i giorni della mia festa mangiano ancora uova e coniglio, dolciumi e carne, che rappresentano rinascita e accoppiamento. Infilano fiori freschi sul cappellino e li scambiano tra loro. Lo fanno nel mio nome. Sempre più numerosi ogni anno. Nel mio nome, vecchio lupo.»
«E tu diventi ricca e grassa con la loro adorazione e il loro amore?» chiese lui seccamente.

«Non fare lo stronzo.» All’improvviso il suo tono suonò stanco. Sorseggiò il mochaccino.
«È una domanda seria, mia cara. Convengo certamente con te che molti milioni di persone si scambiano doni in tuo nome, e che ancora praticano i riti della tua festa, compresa la caccia alle uova nascoste. Ma quanti di loro sanno chi sei? Dimmelo! Mi scusi, signorina» disse alla cameriera.
«Vuole un altro espresso?»

«No, cara. Mi stavo soltanto domandando se lei non potrebbe risolvere una piccola questione. La mia amica e io non ci troviamo d’accordo sul significato della parola "Easter". Lei lo conosce, per caso?»
La ragazza lo guardò come se dalla bocca gli uscissero rospi verdi. Poi disse: «Non so niente di queste storie cristiane. Io sono pagana».
La donna dietro il banco si intromise: «Credo che voglia dire "Cristo è risorto" o qualcosa del genere in latino».
«Davvero?» disse Wednesday.

«Sì, certo» ribatté la donna. «Easter. Come il sole che sorge a est.»
«Il figlio risorto. Chiaro… una supposizione logica.» La donna sorrise e riprese a macinare il caffè. Wednesday guardò la cameriera. «Credo che prenderò un altro espresso, se non le spiace. E mi dica, in quanto pagana lei che cosa venera?»
«Venero?»
«Esatto. Immagino che le possibilità siano piuttosto ampie. Dunque a chi è dedicato il suo altare domestico? A chi si inchina? Davanti a chi prega all’alba e al tramonto?»

La ragazza fece parecchie smorfie con la bocca prima di dire: «Il principio femminile. È una maniera di acquisire potere. Lo sapeva?».
«Certamente. E ha un nome, questo principio femminile?»
«È la dea che c’è dentro ogni donna» rispose la ragazza con l’anello al sopracciglio e le guance soffuse di rossore. «Non ha bisogno di un nome.»

«Ah» esclamò Wednesday con una smorfia scimmiesca, «e fate in suo onore grandissimi baccanali? Bevete vino inebriante sotto la luna piena mentre nei candelabri bruciano ceri scarlatti? Vi immergete nude nell’acqua alzando estatiche inni alla vostra divinità senza nome mentre le onde vi lambiscono le gambe, su su fino alle cosce come lingue di mille leopardi?»

«Lei mi sta prendendo in giro» disse la ragazza. «Non facciamo niente del genere.» Inspirò profondamente. Shadow sospettò che stesse contando fino a dieci. «Volete altri caffè? Un altro mochaccino per lei, signora?» Adesso sfoderava lo stesso sorriso con il quale li aveva accolti.
Fecero di no con la testa e la ragazza andò a occuparsi di un altro cliente.

«Ecco» disse Wednesday «una che "non ha la fede e non avrà la gioia" come diceva Chesterton. Pagani, bella roba. Allora? Vogliamo uscire, mia cara Easter, e ripetere l’esperimento per strada? Scoprire quanti sanno che la festa di Pasqua prende il nome da Eostre of the Dawn? Vediamo… facciamo così: chiediamolo a cento persone. Per ognuna che conosce la risposta mi taglierai un dito della mano, e quando avrai finito con le mani mi taglierai le dita dei piedi; per ogni venti che non sanno la verità invece tu passerai una notte d’amore con me. E le probabilità sono certamente in tuo favore in questa città: siamo a San Francisco, dopotutto. Lungo queste ripide strade abbondano pagani e miscredenti e streghe.»

Gli occhi verdi della donna si posarono su Wednesday. Erano dell’esatto colore delle foglie in primavera quando il sole vi brilla attraverso. Non disse niente.
«Potremmo provare» continuò Wednesday. «Io finirei col tenermi tutte le dita dei piedi e delle mani e guadagnerei il diritto di passare cinque giorni nel tuo letto. Quindi non venirmi a dire che la gente ti venera e onora la tua festa. Pronunciano il tuo nome, ma per loro non significa niente. Zero.»

A Easter spuntarono le lacrime agli occhi. «Lo so» disse a bassa voce. «Non sono stupida.»
«No. Non lo sei.»
Ha esagerato,
pensò Shadow.
Wednesday abbassò gli occhi: «Mi dispiace». Shadow sentì che il suo tono era sincero. «Abbiamo bisogno di te. Ci serve la tua energia. Il tuo potere. Lotterai al nostro fianco, quando scoppierà la tempesta?»
Lei esitò. Sul polso sinistro aveva tatuata una ghirlanda di azzurri nontiscordardime.
«Sì» disse dopo qualche tempo. «Credo di sì.»

Probabilmente è vero quello che si dice,
pensò Shadow.
Se sembri sincero è fatta.
Poi provò un senso di colpa per averlo pensato.
Wednesday posò un bacio su un dito e sfiorò la guancia di Easter. Chiamò la cameriera e pagò i caffè contando con cura il denaro, piegando le banconote insieme alla ricevuta.
Mentre la cameriera si allontanava, Shadow disse: «Signorina, scusi. Credo che abbia perso questo» e raccolse dal pavimento una banconota da dieci dollari.

«No» rispose lei guardando la ricevuta piegata che stringeva in mano.
«L’ho vista cadere» ribatté lui cortese ma insistente. «Provi a contarle.»
La cameriera contò il denaro e con aria perplessa disse: «Cavoli. Ha ragione lei. Grazie.» Prese la banconota e se ne andò.
Easter uscì insieme ai due uomini nella luce che cominciava appena a impallidire. Fece un cenno a Wednesday, poi sfiorò la mano di Shadow e disse: «Che cos’hai sognato, la notte scorsa?».

«Uccelli del tuono. Una montagna di teschi.»
Lei annuì. «E sai a chi appartenevano quei teschi?»
«C’era una voce nel sogno. Me l’ha detto.»
Lei annuì ancora e attese.
«Ha detto che erano miei. Vecchi teschi miei. Migliaia e migliaia.»

Easter guardò Wednesday e disse: «Penso che questo qui sia un custode». Fece il suo sorriso luminoso, batté un colpetto sul braccio di Shadow e si avviò lungo il marciapiede. Lui rimase a guardarla camminare cercando, senza riuscirci, di non pensare alle sue cosce che sfregavano l’una contro l’altra.
Nel taxi diretto all’aeroporto Wednesday si rivolse a Shadow. «Che cosa diavolo è stato quel casino con i dieci dollari?»

«L’avevi fregata. Se c’è un ammanco di cassa lo detraggono dal suo stipendio.»
«E a te che cosa te ne frega?» Wednesday sembrava sinceramente adirato.
Shadow rifletté un momento, poi disse: «Ecco, non vorrei che qualcuno lo facesse a me. In fondo non aveva fatto niente di male».

«Ah no?» L’altro fissò un punto non lontano nel vuoto e disse: «A sette anni ha chiuso un gattino nell’armadio e l’ha lasciato miagolare per giorni. Quando ha smesso di piangere l’ha tirato fuori dall’armadio, l’ha infilato in una scatola di scarpe e l’ha sepolto in cortile. Voleva seppellire qualcosa. Ruba continuamente dalla cassa. Piccole cifre, di solito. L’hanno scorso è andata a trovare la nonna nella casa di riposo per anziani. Ha preso un orologio d’oro antico dal suo comodino e poi ha fatto furtivamente un giro delle altre stanze rubando piccole cifre ed effetti personali, cimeli degli anni d’oro degli anziani ricoverati. Tornata a casa, siccome non sapeva cosa farne e aveva paura che qualcuno la venisse a cercare, ha buttato via tutto eccetto i contanti».

«Ho capito il concetto» disse Shadow.
«Inoltre ha una gonorrea asintomatica» continuò Wednesday. «Sospetta di essere malata ma non fa niente per curarsi. Quando l’ultimo fidanzato l’ha accusata di avergli trasmesso l’infezione lei si è offesa e non l’ha più voluto vedere.»
«Non c’è bisogno che tu vada avanti. Ti ho detto che ho capito il concetto. Comunque potresti farlo con chiunque, no? Dirmi brutte cose sul loro conto, voglio dire.»


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