American Gods

American Gods

Neil Gaiman

«Ehi, Wednesday. I due trucchi di cui mi hai parlato — quello del violino e l’altro, del vescovo con il poliziotto…». Esitò, cercando di dare una forma ai pensieri, di metterli a fuoco.
«Cosa vuoi sapere?»

Ecco, l’aveva capito. «Sono tutti e due trucchi per i quali servono due uomini. Avevi un socio?» Il respiro gli usciva dalla bocca a nuvolette. Si ripromise che appena arrivato a Lakeside avrebbe speso una parte della gratifica natalizia per comperare la giacca più calda e pesante esistente sul mercato.

«Sì» rispose Wednesday. «Avevo un socio. Un socio più giovane. Quei tempi sono passati, ahimè. Ecco la pompa di benzina ed ecco lì, se l’occhio non mi inganna, l’autobus.» Il Greyhound aveva già messo la freccia per svoltare. «L’indirizzo è attaccato alla chiave» disse Wednesday. «Se qualcuno dovesse farti delle domande io sono tuo zio e rispondo all’improbabile nome di Emerson Borson. Ti troverai bene a Lakeside, nipote Ainsel. Verrò da te entro una settimana e viaggeremo insieme. Andremo dalle persone che devo incontrare. Nel frattempo comportati bene e sta’ alla larga dai guai.»

«E la mia macchina…?»
«Me ne occuperò io. Buon soggiorno a Lakeside.» Wednesday tese la mano e Shadow gliela strinse. Era fredda come la mano di un cadavere.
«Sei gelato» gli disse Shadow.
«Prima vado in una camera tranquilla del Motel 6 a fare la bestia a due teste con l’eccellente ragazzina del ristorante e meglio sarà.» Allungò l’altra mano e diede una stretta sulla spalla di Shadow.

Per un istante Shadow provò un senso di vertigine e vide doppio: davanti a lui c’era l’uomo con i capelli e la barba grigi, che gli stringeva una spalla, ma c’era anche qualcos’altro: un’infinità di inverni, centinaia e centinaia di inverni, e un uomo grigio con un cappello dalla tesa larga che peregrinava a piedi da un insediamento all’altro, appoggiandosi al bastone, che fissava da dietro le finestre stanze illuminate dal fuoco, la gioia e la vita splendente che non avrebbe mai potuto avere, che non avrebbe mai potuto condividere…

«Vai» disse Wednesday con una voce che risuonò come un ringhio rassicurante. «Tutto va bene, tutto va bene e tutto andrà bene.»
Shadow mostrò il biglietto all’autista. «Brutta giornata per viaggiare» disse la donna. E poi, con un sorriso quasi soddisfatto aggiunse: «Buon Natale».
Il Greyhound era semivuoto. «Quando arriviamo a Lakeside?»
«Tra due ore. Forse un pochino di più. Dicono che stia arrivando un’ondata di gelo.» Premette un pulsante e le porte si chiusero con un sibilo e un tonfo.

Shadow scelse un posto a metà corridoio, abbassò più che poté lo schienale del sedile e cominciò a riflettere. Il movimento dell’autobus e il calore lo cullavano, e prima di rendersi conto di avere sonno si assopì.

Nella terra, e sottoterra. I segni sui muri erano di rossa argilla ancora umida: impronte di mani, di dita e, qui e là, rozze raffigurazioni di animali, uomini e uccelli.

Il fuoco era sempre acceso e l’uomo-bufalo sedeva ancora dall’altra parte. Fissava Shadow con occhi enormi, due pozzanghere di fango nero. Le sue labbra, contornate da un’arruffata peluria marrone, non si mossero mentre diceva: «Ebbene, Shadow? Ci credi, ora?».
«Non so» rispose. Nemmeno lui, notò, aveva mosso la bocca. Le parole che passavano tra loro non venivano pronunciate, non nel senso in cui Shadow intendeva la comunicazione verbale. «Ma tu esisti?»
«Credi» rispose l’uomo-bufalo.

«Ma tu…» Dopo un attimo di esitazione Shadow chiese: «Sei un dio anche tu?».
L’uomo-bufalo infilò una mano tra le fiamme e afferrò un tizzone ardente stringendolo proprio nel mezzo. Fiamme azzurre e gialle gli accarezzavano la mano rossa senza bruciarla.
«Questa non è una terra adatta agli dèi» disse l’uomo-bufalo. Ma non era più lui che parlava. Shadow lo sapeva, nel sogno: era il fuoco a parlare, era il crepitio della fiamma che gli parlava in quel luogo buio sotto la terra.

«Questo paese è stato fatto emergere dalle profondità dell’oceano da un palombaro» disse il fuoco. «E stato tessuto da un ragno con la sua bava. È stato cagato da un corvo. È il corpo di un padre caduto le cui ossa sono diventate montagne, i cui occhi sono laghi.»
«Questa è una terra di sogni e di fuoco» disse la fiamma.
L’uomo-bufalo ripose il tizzone tra le fiamme.

«Perché mi dici queste cose?» chiese Shadow. «Io non sono importante. Non sono nessuno. Ero un allenatore discreto, un ladro a tempo perso davvero fetente e forse un marito non così bravo come credevo…» Non riuscì a concludere.
«Come faccio ad aiutare Laura?» chiese all’uomo-bufalo. «Vuole tornare viva. Le ho detto che l’avrei aiutata. Glielo devo.»

L’uomo-bufalo non parlò. Indicò il soffitto della caverna. Shadow lo seguì con gli occhi. C’era una sottile lama di luce fredda che entrava da un’apertura nella sommità lontana.
«Lassù?» chiese rimpiangendo che le sue domande non trovassero mai risposta. «Dovrei andare lassù?»

Allora il sogno lo sollevò, poiché l’idea era diventata azione, e Shadow si ritrovò schiacciato contro la roccia e la terra. Era una specie di talpa che cercava di aprirsi un varco, un tasso che scavava, una marmotta che sollevava la terra con le zampe, un orso, ma era terra troppo dura, troppo compatta; respirava con affanno e ben presto non riuscì più ad avanzare, né a scavare o arrampicarsi, e capì che sarebbe morto, lì nelle profondità sotto il mondo.

Da solo non avrebbe potuto farcela. Ogni sforzo era vano. Sapeva che, anche se il suo corpo stava viaggiando in un autobus riscaldato attraverso le foreste invernali, se avesse smesso di respirare lì, sotto il mondo, avrebbe smesso di respirare anche sull’autobus, stava già ansimando con brevi respiri mozzi.
Lottò cercando di spingere, sempre più debole, consumando, a ogni movimento, aria preziosa. Era in trappola: non poteva avanzare e non poteva tornare da dove era venuto.

«Adesso scendi a patti» gli disse una voce nella mente.
«Che cosa ho da offrire?» domandò. «Non ho niente.» Sentiva in bocca il sapore dell’argilla, denso e polveroso sotto i denti.
Poi disse: «Eccetto me stesso. Ho me stesso, non è forse vero?».
Fu come se ogni cosa trattenesse il respiro.
«Offro me stesso» disse.

La reazione fu immediata. Le rocce e la terra che lo avevano avvolto cedettero schiacciandolo sotto il loro peso fino a svuotargli i polmoni dell’ultimo soffio. La pressione divenne dolore, un peso che lo comprimeva da ogni parte. Raggiunse l’apogeo della sofferenza e lì rimase, sospeso, sapendo che di più non avrebbe potuto sopportare. In quel momento la contrazione si allentò e Shadow ricominciò a respirare. La luce sopra di lui era diventata più forte.

Qualcosa lo spingeva verso la superficie.
Quando lo spasmo successivo arrivò, Shadow cercò di assecondarlo. Questa volta si sentì spinto in alto.
Il dolore era incredibile, durante quell’ultima terribile contrazione, e si sentì schiacciato, stritolato e spinto attraverso una rigida fessura rocciosa che gli faceva scricchiolare le ossa e gli spappolava i muscoli. Quando la bocca e la testa martoriata emersero dalla soglia cominciò a gridare di paura e dolore.

Mentre gridava si chiese se non stesse per caso gridando anche nel mondo della veglia, se non stesse gridando anche nel sonno su quell’autobus immerso nell’oscurità.
E quando l’ultima contrazione finì, Shadow si ritrovò per terra, le mani che stringevano la rossa argilla.
Si mise seduto, ripulì la faccia e guardò in cielo. Era il tramonto, un lungo tramonto purpureo, già le stelle spuntavano a una a una, stelle più luminose di qualsiasi stella mai vista o immaginata.

«Presto cadranno» disse alle sue spalle la voce crepitante della fiamma. «Presto cadranno e il popolo delle stelle incontrerà il popolo della terra. Tra loro vi saranno eroi, uomini che sconfiggeranno mostri e porteranno la luce della conoscenza, ma nessuno diventerà un dio. Questo è un posto sbagliato per gli dèi.»

Una ventata d’aria, fredda in maniera scioccante, lo investì in pieno. Era come una doccia ghiacciata. Sentì la voce dell’autista che annunciava l’arrivo a Pinewood: «Chi ha bisogno di fumare una sigaretta o di sgranchirsi le gambe può scendere. Sosta di dieci minuti, poi si riparte».

Shadow barcollò giù dall’autobus. Erano davanti a un’altra pompa di benzina, un piccolo spiazzo praticamente identico a quello da cui era partito. L’autista stava aiutando due adolescenti a sistemare i borsoni nel bagagliaio.
«Ehi» chiamò rivolgendosi a Shadow. «Lei scende a Lakeside, giusto?»
Semiaddormentato, Shadow rispose di sì.

«Accidenti, quella sì che è una bella città» disse la donna. «Qualche volta penso che se mi dovessi trasferire armi e bagagli da qualche parte, andrei proprio a Lakeside. La città più carina che abbia mai visto in vita mia. Ci abita da molto?»
«È la prima volta che ci vado.»
«Mangi una pasty per me da Mabel’s, mi raccomando.»
Shadow decise di non chiedere spiegazioni. «Senta» le domandò invece, «ho forse parlato nel sonno?»

«Io non ho sentito niente.» La donna guardò l’ora. «A bordo. Quando arriviamo a Lakeside la chiamo.»

Le due ragazze salite a Pinewood — Shadow dubitò che avessero più di quattordici anni — si erano sedute nei due sedili davanti al suo. Erano amiche, dedusse Shadow origliando senza volere la conversazione, non sorelle. Una delle due non sapeva niente del sesso però sapeva un sacco di cose sugli animali perché lavorava o passava molto tempo in una specie di rifugio per animali abbandonati, mentre l’altra non era interessata agli animali ma, armata di centinaia di brandelli di informazione carpiti su Internet o dai programmi televisivi pomeridiani, era convinta di saperla lunga sul comportamento sessuale dei bipedi. Shadow ascoltò con orrore e divertimento la ragazza che si credeva esperta delle faccende del mondo raccontare nei dettagli il meccanismo dell’uso di Alka-Seltzer per migliorare il sesso orale.

Shadow si sforzò di non ascoltarle, respingendo ogni suono eccetto il rumore del Greyhound sull’asfalto, e adesso gli giungevano soltanto saltuari frammenti di conversazione.
Goldie è, come dire, un bravo cane, un retriever purissimo, se soltanto mio padre dicesse di sì, scondinzola tutte le volte che mi vede.
È Natale, deve lasciarmi usare il gatto delle nevi.
Puoi scrivere il tuo nome con la lingua.
Sandy mi manca.
Sì, manca anche a me.

Hanno detto che ne scenderanno due metri entro sera, ma secondo me si inventano tutto, si inventano le previsioni e nessuno protesta…

Poi i freni sibilarono, l’autista gridò: «Lakeside!», e le porte si spalancarono. Shadow seguì le ragazze nel parcheggio illuminato di un negozio di video e di un centro abbronzatura ancora aperti, che svolgevano anche la funzione di stazione del Greyhound. L’aria era terribilmente fredda, un freddo piacevole che lo svegliò. Rimase a fissare le luci della città da sud fino a ovest e, a oriente, la grande distesa chiara del lago ghiacciato.

Le due ragazze battevano i piedi e si soffiavano vistosamente sulle mani. La più giovane gettò un’occhiata di soppiatto a Shadow e rendendosi conto che lui l’aveva vista gli sorrise imbarazzata.
«Buon Natale» disse Shadow.
«Già» rispose l’altra, che forse aveva un anno di più, «Buon Natale anche a lei.» Aveva i capelli color carota e il naso, camuso, coperto di lentiggini.
«Bella città» disse lui.

«Noi ci stiamo bene» rispose la più giovane. Era quella a cui piacevano gli animali. Sorrise timida mettendo in mostra gli elastici azzurri dell’apparecchio per i denti. «Assomiglia a qualcuno» gli domandò seria: «lei non è fratello, o figlio di qualcuno, o qualcosa del genere?»
«Sei fuori, Alison» le disse l’amica. «Tutti hanno un padre o un fratello o qualche altro parente.»

«Non era quello che volevo dire» ribatté Alison. Per un luminoso istante si trovarono dentro il cono di luce di due fanali. Era una station wagon con una madre al volante che dopo aver preso a bordo le ragazze e i bagagli scomparve rapida lasciando Shadow solo nel parcheggio.

«Giovanotto? Posso esserti utile?» Il vecchietto stava chiudendo il negozio di video. Infilò in tasca le chiavi. «A Natale il negozio è chiuso» disse in tono allegro. «Però sono venuto a vedere l’arrivo dell’autobus per accertarmi che fosse tutto a posto. Non sopporterei l’idea che qualche povera anima si trovasse a piedi il giorno di Natale.» Gli era venuto così vicino che Shadow riusciva a vederlo in faccia: vecchio ma soddisfatto, aveva l’aria di un uomo che ha bevuto fino in fondo il calice dell’esistenza e nel complesso lo ha trovato colmo di whiskey, di quello buono.

«Be’, potrebbe darmi il numero dei taxi» disse Shadow.
«Potrei» rispose il vecchio con aria dubbiosa, «ma temo che a quest’ora Tom sia già a letto; l’ho visto poco fa, giù al Buck Stops Here, ed era molto allegro. Allegrissimo, in effetti. Dove sei diretto, giovanotto?»
Shadow gli mostrò la targhetta con l’indirizzo attaccata al portachiavi.

«Bene, è una camminata di dieci o forse venti minuti dall’altra parte del ponte. Con questo freddo non è una bella passeggiata, e se poi non si conosce la strada sembra ancora più lunga, l’hai mai notato? La prima volta il percorso dura un’eternità e poi lo si fa in un attimo.»
«Sì» rispose Shadow. «Non ci avevo mai riflettuto ma credo sia vero.»
Il vecchio annuì e la faccia si aprì in un sorriso. «Che diavolo, è Natale. Ti accompagno io con la mia Tessie.»

Shadow lo seguì fino alla strada dov’era parcheggiata un’enorme automobile scoperta, il tipo di vettura che ostentavano i gangster negli anni Venti, completa di predellino e tutto. La carrozzeria era verniciata di un colore scuro che alle luci a vapori di sodio sembrava a volte rosso e a volte verde. «Questa è Tessie. Non è una meraviglia?» Il vecchio accarezzò con aria di possesso una curva del cofano.
«Che marca è?»

«È una Wendt Phoenix. La Wendt ha chiuso nel ’31, il marchio è stato comprato dalla Chrysler però poi non le hanno prodotte più. Harvey Wendt, il fondatore, era di queste parti. Poi è andato ad ammazzarsi in California nel… vediamo, 1941 o ’42. Una terribile tragedia.»

L’auto odorava di cuoio e fumo stantio, come se nel corso degli anni la gente avesse fumato una quantità tale di sigarette da far diventare la puzza di tabacco bruciato tutt’uno con il tessuto dei rivestimenti. Il vecchio girò la chiave dell’accensione e Tessie partì immediatamente.
«Domani se ne va in garage. La copro per proteggerla dalla polvere e la lascio al riparo fino a primavera. In effetti oggi non dovrei guidarla, con la neve.»
«Non tiene la strada, con la neve?»

«La tiene benissimo, il problema è il sale che spargono dappertutto. Fa arrugginire queste bellezze in quattro e quattr’otto. Vuoi che facciamo la strada più veloce o preferisci il grand tour della città al chiaro di luna?»
«Non vorrei approfittare…»

«Nessun disturbo. Quando si arriva alla mia età dormire diventa difficile. Mi considero già fortunato se riesco a chiudere occhio per cinque ore a notte, ormai, altrimenti sto sveglio con i pensieri che mi frullano nella testa. Che maleducato! Mi chiamo Hinzelmann. Il mio nome è Richie, ma la gente qui mi chiama Hinzelmann e basta. Ti stringerei la mano, però ho bisogno di tutt’e due per guidare Tessie. Se ne accorge quando non le presto tutta l’attenzione.»

«Mike Ainsel» disse Shadow. «Piacere di conoscerla, Hinzelmann.»
«Allora facciamo il giro del lago. Il grand tour.»
La Main Street che stavano percorrendo era una strada graziosa anche di sera, con un’aria antiquata nel senso migliore del termine, come se per cent’anni gli abitanti se ne fossero presi gran cura e non avessero nessuna fretta di perdere ciò che amavano.

Hinzelmann indicò a Shadow i due ristoranti della città (uno tedesco che descrisse come: «in parte greco, in parte norvegese, e ogni piatto viene servito con un panino dolce»); poi gli indicò la panetteria e la libreria («Secondo me una città non è una città senza una libreria. Magari pretende di chiamarsi città lo stesso, ma se non ha una libreria sa bene di non poter ingannare nessuno»). Rallentò quando passarono davanti alla biblioteca, affinché Shadow potesse ammirarla. Davanti al portone tremolava la luce di antichi lampioni a gas… Hinzelmann li fece notare a Shadow con un certo orgoglio. «Costruita negli anni Settanta del 1800 da John Henning, locale magnate del legname. Avrebbe voluto che si chiamasse Henning Memorial Library, ma alla sua morte la gente cominciò a chiamarla Lakeside Library e credo che così continuerà a chiamarsi fino alla fine dei tempi. Non è fantastica?» Se l’avesse costruita con le sue mani il vecchio non avrebbe potuto sembrare più fiero. A Shadow faceva pensare a un castello. Quando glielo disse l’altro rispose: «Esatto. Con le torri e tutto. Henning voleva che sembrasse proprio un castello. Dentro hanno conservato le scaffalature originali di abete. Miriam Shultz vorrebbe ristrutturare e rimodernare, ma siccome è un monumento cittadino non si può toccare niente».

Aggirarono l’argine meridionale del lago. La cittadina si sviluppava intorno al lago, che era una decina di metri più in basso del livello stradale. A Shadow sembrò di distinguere le lastre opache di ghiaccio e qualche macchia scintillante d’acqua che rifletteva le luci della città.
«Sta gelando completamente» disse.

«È gelato da un mese, ormai» spiegò Hinzelmann. «Dove vede opaco sono cumuli di neve ammucchiata dal vento e il lucido è ghiaccio. È gelato in una sola notte subito dopo il Ringraziamento, un bello strato di ghiaccio liscio come vetro. Hai mai pescato nel ghiaccio?»
«Non l’ho mai fatto.»
«È la cosa più bella che esista. Non per il pesce che prendi ma per la pace mentale che ti riporti a casa.»

«Lo terrò presente.» Shadow guardava il lago dal finestrino di Tessie. «Ci si può davvero camminare sopra?»

«Si può. Ci si può andare perfino in macchina, ma forse è un po’ prematuro. Qui è freddo già da sei settimane ma bisogna riconoscere che nel Wisconsin settentrionale il ghiaccio si forma più in fretta ed è più duro che da qualsiasi altra parte. Una volta ero a caccia, caccia al cervo, quand’è stato… trenta o quarant’anni fa, e sparo a questo maschio, lo manco e lo vedo correre nel bosco -stiamo parlando della parte più settentrionale del lago, vicino a dove vivrai tu, Mike. Dunque, era il più bel cervo che avessi mai visto, con le corna molto ramificate, alto come un cavallino, parola. Dunque, io ero molto più giovane e avventato di quanto sia ora e benché avesse cominciato a nevicare già prima di Halloween, quell’anno, era il Ringraziamento e per terra c’era neve fresca, perciò potevo vedere le impronte. Il grosso cervo mi dava l’impressione di essere diretto al lago in preda al panico.

«Be’, solo un matto cercherebbe di correre dietro a un cervo, e invece eccomi lì, matto come un cavallo, che gli corro dietro e te lo vedo fermo in mezzo al lago, in dieci o quindici centimetri d’acqua, che mi fissa. In quel preciso momento una nuvola nasconde il sole e arriva la gelata, la temperatura dev’essere scesa di dieci gradi di colpo, è la pura verità. E quando il vecchio maschio cerca di scappare non riesce a muoversi. È intrappolato nel ghiaccio.

«Io mi avvicino piano piano. Si capisce che vorrebbe scappare ma è bloccato e quindi non ce la farà mai. D’altra parte niente al mondo mi farebbe sparare a una creatura indifesa: che razza di uomo sarei se facessi una cosa simile, eh? Così alzo la canna del fucile e sparo un colpo in aria.

«Be’, il rumore dello sparo e lo shock sono sufficienti a far scappare il cervo fuori dalla sua pelle ed è proprio quello che fa, lasciando la pelle e le corna nel ghiaccio mentre corre a nascondersi nel bosco, rosa come un neonato e tutto un tremito.

«Sicome mi dispiaceva per lui sono andato a chiedere alle signore del Circolo di Lavori Femminili di confezionargli una cosetta calda per l’inverno e loro gli hanno fatto una specie di tuta di lana in modo che non congelasse. Ovviamente si erano prese gioco di noi perché preparandogli una tuta di un bell’arancione acceso nessun cacciatore avrebbe potuto sparargli per sbaglio. Dalle nostre parti i cacciatori si vestono di arancione» aggiunse per chiarire. «E se pensi che ci sia anche una piccola parte di menzogna in quello che ti ho detto posso dimostrarti che è tutto vero. Ho ancora le corna appese al muro del mio studiolo.»


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